«Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione […] vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini».
(Antonio Gramsci, lettera alla madre, 10 maggio 1928).
Antonio Gramsci ha aperto ogni capitolo della mia tesina della maturità, si intitolava Lo Stato, e citarlo a inizio pagina mi dava un senso di sicurezza, di tranquillità, come se il mio lavoro fosse nelle sue mani, al riparo da una mentalità che già nel 2005 stava mettendo radici. Forse perché mi diplomavo nel suo stesso Liceo Classico, il Dettori di Cagliari. Forse perché sono una ragazza di altri tempi, e spesso in questo mondo non riesco proprio a trovarmi.
Lo voglio ricordare così oggi, con queste poche righe, perché c’è una cosa che mi fa male della mia epoca e della mia generazione. Che non siamo più in grado di rinunciare a nulla per un’idea, che viviamo imprigionati dal ricatto di un lavoro, in un’esistenza precaria che ci sta facendo perdere la capacità di difendere le nostre idee, i nostri valori sempre in vendita. Dicono che è la crisi, il “si salvi chi può” che porta tutti a rimandare certe battaglie al dopo… quando avremmo nuovamente un lavoro sicuro, quando insomma, assicurato il pane, si potrà tornare a pensare in grande.
Ecco, io credo che ormai non ne saremmo più capaci. Che ormai i grandi discorsi li costruiamo sempre sulla vita degli altri, ma quando tocca a noi, alla nostra piccola battaglia contro un’ingiustizia che viviamo sulla nostra pelle, la paura di peggiorare ancora di più la nostra posizione ci porta a scegliere di tacere diventando complici di chi sta togliendoci un futuro. Ma questa si chiama omertà, ragazzi cari, dobbiamo smetterla di non urlare le nostre ragioni. Ne abbiamo il diritto ma soprattutto il dovere. Mi piacerebbe che fossimo capaci di questo coraggio, dopo 84 anni, come sardi, come giovani, come costretti a un futuro più difficile di quello dei nostri padri.
Ma poi penso a una recente intervista fatta a una ragazza sarda che frequentava le feste di Arcore. Le chiedono se i genitori fossero contenti che lei, già a 19 anni, conoscesse così bene il Presidente del Consiglio, e lei sorridendo dice: sì, i miei erano molto felici, perché è una cosa bella conoscere un uomo importante.
E allora capisco un’altra cosa che non avevo messo in conto. Lettere alle madri, come quelle che leggiamo nei diari di Gramsci, non possono essere più possibili, non tanto per le figlie o i figli, ma soprattutto per colpa, di queste madri.