Odifreddi Pitagorico

Sviste e leggerezze che possono capitare quando la Razionalità diventa un (f)atto di fede [rico Biscione]

Odifreddi Pitagorico
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Federico Biscione Modifica articolo

7 Ottobre 2011 - 00.16


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Ho letto di recente Penna, pennello e bacchetta (Laterza, 2005) di Piergiorgio Odifreddi: un libro agile, godibile e pieno di riferimenti avvincenti, oltreché scritto con arguzia. Il volumetto si propone di dimostrare che arte e scienza non sono mondi così separati come si crede, e che la matematica può essere considerata forse addirittura la sostanza stessa dell’arte. Dico subito che non sono d’accordo con quest’ultima affermazione, presentata com’è in una forma così estremistica, e poi la terza parte del lavoro (quella sulla musica, mio campo d’indagine) contiene imprecisioni e sviste che meritano una menzione. Vediamo.

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Non è vero che l’espressione metrica 9/8 indichi una battuta di nove tempi: bensì una battuta di tre tempi, ciascuno con con suddivisione ternaria: le indicazioni di metro non sono equiparabili tout court a espressioni matematiche frazionarie, ma discendono da una pratica secondo la quale 4/4, 2/2 e 8/8 non sono affatto equivalenti.

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Il brano mozartiano cui si fa riferimento per una sua particolare tecnica canonica, non può essere il Duo per violino e viola KV 423 (che è un brano “normale”); credo che l’autore si voleva riferire ai Quattro canoni a specchio (per due violini, non per violino e viola, KV Anh. C 10.16). Questi brani, a parte la curiosa proprietà di poter essere suonati da due violinisti che leggono da parti opposte il medesimo spartito, rimangono però un’opera non eccelsa, che i musicologi sono abbastanza concordi nel ritenere di autore anonimo.

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La Toccata e fuga BWV 538 di Bach, di veramente dorico non ha nulla: ha soltanto la particolarità meramente grafica di non avere il bemolle in chiave tipico del Re minore, e fa pensare così all’utilizzo di una scala antica (il modo dorico, appunto); si tratta invece di un pezzo assolutamente, compiutamente e incontrovertibilmente tonale, e infatti il Si bemolle non scritto in chiave salta fuori direttamente davanti alla nota con precisione svizzera, insieme a tutte le altre alterazioni che le leggi della tonalità di volta in volta prescrivono. È invece perfettamente pertinente il riferimento alla beethoveniana Canzona di ringraziamento.

Ancora a proposito degli antichi modi: Non credo sia corretto affermare che nel canto gregoriano ci siano quattro modi e due tonalità per ognuno di essi: la questione è molto più sottile e riguarda il gioco tra la nota finalis (che è fissa) e la repercussio (che invece si abbassa nella versione plagale del modo) in un diverso ambitus. Questo genera piuttosto diversi orientamenti melodici, concetto assai diverso da quello comunemente associato al termine tonalità. E nemmeno la teoria antica da enfasi all’antitesi autentico/plagale, se pensiamo alla numerazione progressiva dell’octoechos.

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Anche il riferimento alla antica teoria della musica delle sfere desta perplessità: i fondamenti scientifici di una corrispondenza tra le misure del cosmo e i rapporti tra i suoni sono probabilmente troppo labili per supportare questo che è fondamentalmente un mito (ancorché tramandato da scienziati), come viene dimostrato in Armonia celeste e dodecafonia (Rizzoli, 2006) di Andrea Frova (libro che mi sembra esemplare da ogni punto di vista).

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Nuovamente a proposito di Mozart, pure Odifreddi (anche se in buona compagnia, addirittura con il DEUMM) si presta a perpetuare la leggenda metropolitana secondo cui nel Don Giovanni il Commendatore, appena giunto dall’oltretomba per la cena, intoni una serie di dodici note alle parole “Non si pasce di cibo mortale / chi si pasce di cibo celeste”. Questa ipotesi è letterariamente molto affascinante: da quale assunto sarebbe partito l’autore, e che cosa ci avrebbe voluto dire facendo esprimere uno spettro infero in lingua musicale dodecafonica? Peccato soltanto che l’ipotesi non sia vera: una serie deve essere il più possibile completa, non deve contenere ripetizioni (a parte quelle consecutive), e deve evitare per quanto possibile combinazioni che possano rimandare a una melodiosità di derivazione troppo marcatamente tonale. La frase del Commendatore non ha in toto nemmeno una di queste caratteristiche.

Mia opinione è che la tecnica dodecafonica sia stata creata apposta per andare contro la tonalità, per una scelta intellettualistica e arbitraria – con buona pace di quelli, Schoenberg in primis, che hanno voluto spacciare la nascita della serialità come fatto storicamente necessario, sventolando un certificato di morte (presunta) della tonalità. (Ma questo sarebbe un argomento da approfondire, magari in un altro post).

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Ma adesso basta di fare i Beckmesser, e tentiamo un approfondimento su qualcuno degli aspetti storico-estetici, per come vengono presentati dall’autore.

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Sostiene Odifreddi di ricercare “la matematica del senso” e la “musica della ragione”, e allo scopo di ritrovare i collegamenti tra musica e matematica, il testo si concentra su opere di compositori che a vario titolo si sono occupati in tutto o in parte, scientificamente o meno, di matematica e/o fisica, o di numerologia, oppure hanno elaborato un qualsivoglia sistema compositivo che “tendeva a produrre opere quasi completamente meccanizzate”: Tartini, Xenakis, Boulez, Glass, de Vitry, Marchetto da Padova, Mozart, Stravinsky, Ockegem, Bach, Hindemith, Telemann, Webern, Messiaen, Schoenberg, Berg, Haendel, Stockhausen, Berio, Nono, Babbitt, Rameau, Bartók.

Personalmente non sono affatto sicuro che i sistemi (più o meno) automatici di composizione musicale meritino tutto questo entusiasmo: le composizioni in cui ciò entra in gioco sono sicuramente molte, ma si potrebbe aggiungere (e non mi pare una valutazione secondaria) che non tutte abbiano conseguito un uguale risultato estetico: il caso di Bach è sicuramente emblematico, anche (e soprattutto) per l’inarrivabile, direi ineffabile bellezza delle sue assai numerose composizione “canoniche”; ma bisognerà ammettere che rimane un caso unico, mentre gli altri esempi appaiono musicalmente quasi tutti decisamente più modesti (non si adontino i cultori di Binchois o di Ferneyhough).

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Non fa eccezione il curioso Musikalisches Würfelspiel (Gioco di dadi musicale), che era un metodo per comporre musica attraverso l’assemblaggio casuale (mediante numeri ottenuti coi dadi) di frammenti di musica “prefabbricata”, creati in modo da ammettere tale possibilità. Di questo, che è appunto solo un gioco, abbiamo alcuni esempi pubblicati come mozartiani a partire dal 1793 (quindi postumi), ma che molto probabilmente di Mozart non sono: di lui abbiamo come unica fonte certa un manoscritto, incompleto e diverso dagli altri pubblicati a suo nome. Sia come sia, anche qui si dovrà ammettere che gli “infiniti” minuetti “composti” in questo modo, stanno sì abbastanza in piedi, tecnicamente parlando, ma il loro ascolto delude fortemente le aspettative (il web offre alcuni siti che permettono questa verifica).

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Infine, se guardiamo alla rosa di autori portati a esempio (cfr. sopra) notiamo un notevole “buco” temporale: non troviamo alcun nome di compositore dell’Ottocento (ed effettivamente l’epoca romantica ha perso il gusto per certe astrazioni, certe intellettualizzazioni in musica). Forse proprio per questa mancanza di esempi Odifreddi afferma: “la separazione [della musica] dalla matematica è stata solo una parentesi temporanea e (letteralmente) romantica nella storia della musica, preceduta da millenni di felice convivenza, e seguita dall’inevitabile riconciliazione”.

Bene, è evidente che l’autore apprezza soprattutto la musica con un certo taglio tra il formale, il razionale e l’intellettuale, e per la stessa ragione sembra voler privilegiare anche nel XX secolo la produzione musicale di origine, a vario titolo, più scientifica (quella della “inevitabile riconciliazione” di cui sopra); il tutto sintetizzato alla fine del volume nell’equazione “MUSICA=ARMONIA=MATEMATICA”.

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Io chiedo perdono a Odifreddi (che è un uomo brillante e un intellettuale straordinario, si sa), ma trovo questa equazione francamente semplicistica e troppo perentoria, e mi sembra dettata da una fede troppo cieca negli strumenti intellettivi: con tutto il rispetto, questa “parentesi temporanea” mi sembra una gattabuia assai inadeguata per i calibri che vi vengono relegati (stiamo parlando di Beethoven, Chopin, Verdi, Bizet, Wagner, Čajkovskij e gli altri moltissimi e altrettanto grandi le cui opere non sembrano evidenziare gli interventi di una mente matematica).

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Insomma, che la scienza possa spiegare il reale è verissimo; ma se con essa vogliamo spiegare tutto il reale, o se crediamo che quanto la scienza in nostro possesso non ci spiega, semplicemente non sia degno di considerazione e di indagine, allora rischiamo la fine di Don Ferrante.

Un aforisma di Oscar Wilde dice: “Posso sopportare la forza bruta, ma la ragione bruta è assolutamente insopportabile”.

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