Il rock cinese, un mondo tutto da scoprire
Top

Il rock cinese, un mondo tutto da scoprire

La scena musicale in Cina è giovane, alternativa e ribelle. Una contaminazione tra cultura locale e suoni occidentali. Industria fondata sul live. [Giampiero Di Carlo]

Il rock cinese, un mondo tutto da scoprire
Preroll

Desk Modifica articolo

12 Giugno 2012 - 10.40


ATF
di Giampiero Di Carlo*

C’è una manifestazione musicale non abbastanza nota in Italia rispetto alla sua potenziale portata. Si chiama HitWeek: è, sostanzialmente, una spedizione all’estero, una piccola carovana musicale di qualità che migra per circa una settimana in una realtà geografica distante per promuovere la musica italiana contemporanea. E’ giunta al suo quarto anno: la organizza da sempre Francesco Del Maro che l’ha portata a Los Angeles (2009), per poi estenderla prima a New York (2010) e poi anche a Miami (2011). Nel tempo, l’evento ha potuto contare sulla partecipazione di diversi artisti, tra i quali meritano di essere citati Franco Battiato, Elisa, Caparezza e, soprattutto, Negrita e Subsonica. Ed è proprio con queste ultime due band che, quest’anno, HitWeek è approdata in Cina per due serate a Pechino (31 maggio e 1 giugno al Tango 3rd Floor) e a Shanghai (3 e 4 giugno al Mao Live, uno dei locali più bollenti della stupenda megalopoli). Erano della partita anche La Fame Di Camilla (opening band nelle quattro date) e le band cinesi Shanren e ZhonYunshan.

HitWeek China 2012 è stata l’occasione giusta per tastare il polso alla scena musicale locale che, per dimensioni, è sconfinata e merita ulteriori e meticolosi approfondimenti per essere compresa appieno. Però l’evento ha offerto gli strumenti per studiarne le caratteristiche artistiche, mediatiche e commerciali. Il rock in Cina non ha nemmeno 20 anni di età. Tra le inevitabili suggestioni ed emulazioni straniere, ha assunto una fisionomia ed un significato tutti suoi. “Rock” è l’etichetta giusta, ma incorpora espressioni di elettronica e dance, incarna molto seriamente lo spirito ‘alternative’ in quanto sinonimo di ribellione e distacco dal sistema, è capace di accogliere derive di folk occidentale e creare belle contaminazioni tra la tradizione popolare di laggiù e i suoni e gli arrangiamenti importati da Stati Uniti e Europa (per averne una prova, basta cercare su YouTube i video degli Shanren o, meglio, vederli dal vivo quando a novembre ricambieranno la visita in Italia).

Leggi anche:  L'addio al rock dei The Who inizia dall'Italia

Le motivazioni e la spinta dei giovani musicisti cinesi sono straordinarie come può esserlo solo l’espressione artistica dentro un contesto sociale unico e forse irripetibile, in un luogo dove si sperimenta la coabitazione tra dirigismo e capitalismo, dove censura e diritti umani sono ancora temi tabù e la crescita del Pil, pur rallentata nell’ultimo anno, fa registrare tassi da fantascienza. E allora che questa espressione artistica si manifesti attraverso i generi più disparati, dal metal all’electro, dal drum ‘n’ bass al classic rock, diventa francamente secondario; semmai è interessante cercare di capire se e come questa scena sia in grado di dare vita anche a un’industria di settore strutturata.
La scena musicale cinese è un prodotto dell’attualità delle sue città ed è coerente con la particolare “dieta digitale” dei suoi fans.

Le città, per cominciare. In dieci anni Pechino ha innestato nel proprio tessuto urbano un’architettura a base di grattacieli e costruzioni futuristiche, affiancando al fascino remoto della Città Proibita un’atmosfera alla “Blade Runner”. I contrasti sono meravigliosi, il traffico sarà per sempre fuori controllo, il ritmo è forsennato. Una crescita rapida e, per noi occidentali, imprevedibile e inattesa, che assomiglia proprio allo stile con il quale si è sviluppata la musica contemporanea in Cina: una straordinaria capacità di internazionalizzare i codici di linguaggio a braccetto con la pressoché totale impossibilità di strutturare la crescita. La vita notturna e il life style urbano del roboante quartiere Sanlitun restituiscono una palette di suoni e generi in cui tutto coesiste. La capitale non è sola, ovviamente. C’è un paio di decine di città i cui nomi non ci suscitano assolutamente nulla ma che contano su una popolazione di almeno 7-8 milioni di individui ciascuna. Shanghai, meravigliosa, meticcia, gigantesca e avanti, con i suoi 23 milioni di abitanti vale quasi la metà della popolazione italiana. Ogni città, insomma, ha una massa critica tale da rappresentare un mercato a sé stante. Molti microcosmi separati, una difficoltà in più per l’esploratore proattivo…

Leggi anche:  La storia dei Dik Dik e l’amicizia con Lucio Battisti nel nuovo libro di Pietruccio Montalbetti

I media e le piattaforme digitali? I giovani cinesi campano senza che per loro Google sia rilevante. L’utilizzo di Twitter è una corsa a ostacoli, quello di Facebook anche peggio. La barriera del linguaggio, sperimentata da questa parte della barricata, è elevata, superata addirittura dalla diversità dei caratteri di scrittura. Non ci sono veri e propri siti musicali. I social network sono locali ma macinano ognuno numeri da grande portale. La crescente popolazione giovanile straniera che affolla le grandi città cinesi ti sorprende perché parla disinvolta il cinese, ma scopri come solo una minoranza lo scriva in modo fluente. Fa una grande differenza, manca una componente autorale che cementi la musica di fuori con quella di dentro. La diffusione del mobile è cosa seria e nelle metropoli il tasso di accesso all’internet via smartphone è elevatissimo. La scoperta della musica, oltre che da YouTube, passa da Baidu, principale search engine cinese e, con scorno delle major, per anni sfacciato alleato del file sharing.
Insomma, se il profilo del “consumatore digitale” già crea difficoltà al marketing di ogni azienda, figurarsi quello cinese, che all’individualismo e all’abitudine al mashup somma (visto da qui) l’imperscrutabilità di una dieta digitale tutta da decretare.

In tutto questo contesto, scopriamo che l’industria musicale cinese è, di fatto, un’industria live. Il prodotto Cd non è mai stato in grado di creare un mercato, soprattutto a causa della tolleranza delle autorità per la contraffazione. La discografia, con le sue tradizioni, il suo modello di business e le sue liturgie, risulta sostanzialmente non pervenuta. Se c’è business da fare, questo transita dai concerti: la notorietà, come ai vecchi tempi, passa dalla reputazione dal vivo; da qui si potrà procedere alla monetizzazione delle carriere degli artisti.

Leggi anche:  Musica senza frontiere, il festival artistico di Villa Pennisi

Il vero prodotto è dunque l’artista, e la curiosità intorno agli artisti stranieri rende quello cinese, oltre che difficile, un mercato molto attraente per chi abbia iniziativa e pazienza. I gusti della domanda seguono strade misteriose e il rispetto e l’ammirazione che i cinesi nutrono per la creatività italiana possono regalare sorprese piacevoli, posto che si studi questa cultura e si provi ad intuirne l’evoluzione prossima ventura, collocandosi senza pregiudizi all’incrocio tra passato e futuro. Un passato richiamato da ciò che conosciamo – e possiamo quindi prevedere – degli albori del rock, un’epoca pionieristica, un panorama ancora tutto da costruire coerente col fatto che qui il rock è poco più che un adolescente. E un futuro tipico di ogni giovane di questo decennio: anche il rock cinese è un nativo digitale e imporrà all’offerta le proprie regole.

Se vuoi saperne di più [url”clicca qui”]http://www.hitweek.it/[/url].

La rivoluzione digitale e la musica contemporanea cinese, al contrario di quanto è successo da noi, parlano la stessa lingua e qui non si pone il problema irrisolvibile di riadattare un modello di business obsoleto (prodotto e distribuzione fisica, elevate barriere all’ingresso, margini elevati) ad uno scenario mutato. L’assenza di una pesante ‘legacy’ da gestire può costituire un gran vantaggio in un paese non particolarmente permeabile ma che pare posizionato molto avanti nella curva di esperienza. L’ancora poco comprensibile mercato cinese, in effetti, sembra volere indicare alla musica e ai media uno scenario che potrebbe diventare dominante, nel quale per proliferare bisognerà privilegiare i volumi rispetto ai margini e fare un po’ come la telefonia, bravissima a non equivocare ‘costless’ con ‘valueless’.

*editore/Fondatore di Rockol

Native

Articoli correlati