I semi di pietra di Pinuccio Sciola
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I semi di pietra di Pinuccio Sciola

In ricordo di Pinuccio Sciola, artista straordinario e coraggioso che ha fatto di San Sperate e della Sardegna il centro del mondo. [Antonio Cipriani]

Pinuccio Sciola con le sue pietre sonore
Pinuccio Sciola con le sue pietre sonore
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Antonio Cipriani Modifica articolo

13 Maggio 2016 - 18.55


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La mia conoscenza del cuore magico della Sardegna ha radici negli incontri fertili che il tempo non cancella. Il ricucire il mondo di Maria Lai, i semi di pietra e il suono dell’universo di Pinuccio Sciola. Quando tutto farfuglia, solo l’arte ha il potere di lasciarsi riconoscere, di depositare nel cuore la bellezza che sovverte e mantiene vivi. Sono sensazioni che lego all’amicizia e alla cura che l’amicizia porta con sé come privilegio raro nei giorni opachi. Uno zigzagare nelle profondità degli incontri che ho fatto in un’epoca lontana e che sono l’essenza della memoria e della vita.
Con Pinuccio fu amicizia al primo sorso di rosso. Amicizia da pane spezzato insieme, notti di racconti e girovagare di campagne sarde. Con Rosi, Giovanni, Michela, Mari, Pablo. Oggi che ci ripenso vedo quelle serate a San Sperate come visite in un tempio sacro, dove la porta sempre aperta spalancava la speranza, toglieva la patina dell’oscuro tempestare di inutilità, lasciava decantare le paure fino a renderle coraggio. In un tempo che ha preceduto ogni tempo e spoglia dalle fatiche del mondo. Pinuccio si è spento oggi. Le sue opere canteranno per lui, per le sue mani da gigante, per chi saprà ascoltare. Per ricordarlo ho scelto un testo di qualche anno fa che gli ho dedicato.

Il coraggio dei giganti.
Mi chiedo quale coraggio possa continuare a vivere nel cuore della gente. Quale coraggio a mettere al mondo figli. A pregare santi spauriti, a continuare nel tempo a carezzare la pietra nera precipitata dal cielo.

Mi chiedo quale coraggio porti con sé quella pietra, quale furia magica lo sguardo dei bambini, anche loro spauriti come santi; quale fame di vento le donne che si aggirano furtive. Che sognano furtive, e sentono la terra come loro sangue e sentono il sangue come calce bollente di possibilità perdute.
Un sogno rubato via, un piccolo bacio lasciato sulla punta delle dita, un carillon che racconta il gioco dell’esistere. E ancora quel sangue che si scioglie nella terra e diventa seme, altro sangue bianco a sciogliere le nostre utopie. La tempesta delle ansie raccolte in pochi recipienti di rame. Come fogli spiegazzati dalle mani invecchiate e scarne, liquidi ricordi in liquide tensioni di carne, muscolosa carne e tendini.

Ricordi, in abbondanza lasciati ad asciugare al vento del golfo. E poi al fuoco tenue della vita, dell’ultimo abbraccio dolce.
Al respiro di un volto che appena rammenti e già l’orizzonte e ruota come lune che si inseguono e furtiva (ancora una volta) la pietra diventa meteora e segno. Scagliata oltre ogni possibile ricordo e microscopica prova dell’esistenza di un dio delle rotazioni spaziali.

Mi chiedo quale coraggio possano avere avuto i giganti isolati nel cuore ruggente delle montagne. Che tipo di vita possano aver costruito per morire nel loro ultimo simbolo sacro di tomba impossibile da profanare. Cresciuta di sassi e querce, ispirata da suoni remoti che qualche pastore ancora tiene inciso nel lato profondo della vita. Mentre altri li confondono con le parole, o bene che va, con il lamento degli uccelli notturni. E poi i loro figli con la fretta e i figli dei figli con la rabbia cieca e la vendetta di non sapere più di che vendicarsi. Di chi profanare il ricordo. Se di un gigante sceso dalle stelle per coniugare cielo e terra o di un silenzioso omino che nessuno ha mai visto da queste parti. Con gli occhi grandi troppo più grandi delle proprie aspettative, che si è sollevato verso il cielo con una sua personale illuminata cattedrale di nostalgia. Ad esercitare la voglia di essere unicamente dio e niente altro. Lasciando al destino di noi miscredenti la gigantesca ombra della sua piccolissima arroganza. E il desiderio altrettanto gigantesco di dimenticare l’origine del tempo e di non lasciarsi dimenticare.

Passati cinquemila anni noi qui, seduti davanti a pane, vino e semi di pietra viva, portiamo in petto la stessa domanda: perché ricordare? E’ già gigantesco il senso della storia, del sangue che per millenni scorre sereno ai piedi di ognuno. Perché non chiudere gli occhi. Un piccolo sonno per chi è stato un tempo un gigante. O un grande gigantesco sonno di chi è sempre stato un piccolo uomo e rincorre l’origine bastarda di scherzo della natura. Di incontri astrali poco lucenti, di fermenti ferrosi e idrogeno. E vivere come niente fosse. Non credere più a niente, lasciarsi asciugare addosso il tempo, non costruire più cattedrali innalzate all’idea di meraviglia. Scartare l’idea che un Dio sublime e incomprensibile stia giocando a dadi con il destino. Accettare il niente inconsapevole come origine e fine dell’esistere. Abbattendo le ultime vestigia di una vita incomprensibile.

Mi chiedo del coraggio. Oggi che non ne esiste traccia su questo lato del mondo. Oggi che la violenza ne ha preso in ostaggio il senso, trasformando in pavide tracce di umanità il potente sorgere di una genesi impossibile da cancellare.
Perché a un certo punto del giorno nascono dalla terra e dai ricordi le ombre di quello che siamo stati. Di quello che saremmo potuti essere se avessimo continuato a sognarci. Lucenti riflessi ne tracciano i profili scuri. Affaticano gli occhi quei riflessi e l’occhio costruisce fessure nel vedere distante. Più distante dello sguardo e del ricordo stesso. Oltre la memoria che millenni dopo millenni sedimenta la pietra e inasprisce il cuore e indebolisce il sangue. Quello stesso sangue di gigante sceso dalle stelle che un tempo era giovane, di orgoglio e meraviglia.
Poi solo meraviglia di grazie dio per averci inventato un destino e un pensiero. Ecco che ti parlo la tua stessa lingua di mostri paure e bellezza. Ecco che innalzo all’incomprensibile esistere le architetture delle mie mani sapienti. In cui raccontare la paura che affolla la mia testa perché ho un’anima e sono figlio dei figli.

Eppure lasciare il seme di pietra come pane spezzato da mani di uomo che ha fame. Lasciare che fecondi la montagna con la sua spinta. Che torni a diventare guglia, cattedrale, precipizio, coraggio e suono di bambino e possibile vita di vite. Radice di futuro e memoria dolente. Tamburo silenzio e dimenticata radice. Telaio di sogno e tessere celato agli occhi degli uomini. Come storie tramandate dal vento.

 

In questa immagine di Rosi Giua si vedono da destra Uliano Lucas, Pinuccio Sciola (a piedi nudi) e Mario Dondero.

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