di Rock Reynolds
Socialista, sognatore, rivoluzionario. Tre termini che si possono applicare a Salvador Allende, il presidente democraticamente eletto del Cile che, tra il 1970 e il 1973, lo guidò in un progetto innovativo di socialismo. Nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto restituire al paese le ricchezze che l’ingordigia delle multinazionali gli sottraevano da decenni e al popolo la dignità di salari più elevati e l’efficienza di un sistema di educazione e sanità pubblica gratuiti per tutte le fasce sociali.
Sappiamo come andò. L’11 settembre del 1973, il palazzo presidenziale chiamato “La Moneda” fu bombardato dai militari alle dipendenze del generale Augusto Pinochet, che lo stesso Allende aveva messo a capo del ministero della Difesa, convinto che gli fosse leale. Che Allende sia morto suicida, dopo aver guardato negli occhi lo spettro del colpo di stato, oppure che sia stato ucciso da quei militari che avevano messo il palazzo del governo a ferro e fuoco resta un dettaglio tutto sommato secondario. Lo sviluppo degli eventi è ormai storicamente noto: il fallimento delle politiche socialiste e, forse, un po’ troppo ottimiste del suo mandato, sotto i colpi dell’alta borghesia e dei grandi ricchi, legati a doppia mandata agli interessi americani e canadesi e sostenuti dai vertici militari, come sempre poco propensi al cambiamento e certo non simpatizzanti verso principi progressisti che odorino anche solo vagamente di marxismo. La morte di Allende e un lungo periodo di terrore di stato, con la cancellazione dei diritti fondamentali e la sparizione degli oppositori politici, ne furono la conseguenza più truce.
A un paio di settimane dal cinquantesimo anniversario di quel golpe che spezzò non solo le sacrosante aspirazioni di un popolo ma pure qualsiasi slancio di cambiamento sociale autentico in tutto il mondo e, in particolar modo, nella fragilissima America Latina postcoloniale, Mimesis Edizioni ripubblica in contemporanea due testi fondamentali per capire meglio la filosofia del pensiero di Allende e le ragioni del suo fallimento pratico.
La via cilena al socialismo (Mimesis, pagg 271, euro 16) è una raccolta di discorsi tenuti da Salvador Allende in veste di presidente. Una rivoluzione capitalista (Mimesis, pagg 283, euro 20) è un saggio attraverso cui il politologo e sociologo cileno Tomás Moulian non fa il minimo sconto alla storia del suo paese.
Sappiamo bene, anche per diretta seppur tardiva ammissione della segretaria di stato americana Madeleine Albright, che il golpe in Cile fu orchestrato dalla CIA come triste prodromo dell’Operazione Condor, attraverso la quale gli USA si assicurarono, schiacciando per prime le aspirazioni socialiste del Cile, che l’intero bacino instabile dell’America Latina seguisse un percorso obbligato: in soldoni, che nessun paese virasse politicamente a sinistra, un rischio inaccettabile per i cosiddetti valori democratici degli Stati Uniti e, ancor più, per il loro portafogli. I danni collaterali delle violenze indicibili a cui il popolo cileno, prima, e quelli dei paesi confinanti, poi, vennero sottoposti, probabilmente andò addirittura al di là di quanto messo in conto dalle menti di Washington, ma non furono certamente gli ultimi.
La sensazione che si ricava dalla lettura de La via cilena al socialismo è che, con i suoi i discorsi appassionati, Allende abbia piantato gli ultimi chiodi nella sua stessa bara. La veemenza garbata e l’ingenuità e l’entusiasmo quasi adolescenziali che se ne ricavano restano il testamento spirituale di un uomo sempre più solo al comando, lui che avrebbe desiderato prendere collegialmente ogni decisione, da socialista convinto qual era. Non si può fare a meno di pensare che, con le sue prese di posizione da idealista militante, Allende abbia firmato la propria condanna a morte. Malgrado, in un discorso sull’intenzione di nazionalizzare le miniere di rame, Allende dichiarasse che non si trattava di «un’aggressione al popolo e al governo nordamericano», preconizzando ciò che le sue scelte avrebbero comportato, la fine era scritta quasi dal principio. In un contesto continentale dominato dalla dottrina Nixon, o meglio da quella Kissinger (che pare si sia lasciato sfuggire che gli USA non avrebbero mai consentito a un popolo sciocco, quello cileno, di prendere decisioni altrettanto insensate), pensare di poter nazionalizzare le grandi aziende in mano a potentati stranieri, avere un governo autenticamente del popolo, chiedere sacrifici superiori alle classi più abbienti in favore delle frange meno fortunate, implementare una forma di autarchia illuminata e assicurare a tutti istruzione e sanità gratuite e di alto livello avrebbe equivalso a dare il via in tutta l’America a un virtuoso effetto domino quanto mai inviso a Washington. Fidarsi delle forze armate, da Allende ritenute colonna portante della democrazia, fu l’ennesima, inevitabile ingenuità. Ipotizzare di esportare il modello socialista cileno in tutta la regione fu ancora più pericoloso. Le parole conclusive di un discorso sulla nazionalizzazione del carbone suonano magniloquenti quanto sinistre, alla luce di quanto accaduto. Washington non le avrebbe mai perdonate: «Siamo il governo del popolo, siamo il popolo divenuto governo… perché in Cile abbiamo trovato una soluzione cilena per i problemi del Cile».
Dopo aver letto le parole di Allende, calarsi nella realtà del commento politico di Tomás Moulian può risultare un’operazione indigesta, ma la sua spietata lucidità è suffragata dalla storia. Il golpe, a suo dire, fu «una controrivoluzione, e più precisamente una reazione contro un movimento popolare in crescita». Fu «il rifiuto del “pezzente” e delle sue illusioni di potere, il ripudio del comunismo e delle sue aspettative di un futuro senza classi».
Si diceva che, tutto sommato, soffermarsi sul dubbio relativo a come morì Allende è inutile. Questo perché, secondo Moulian, «quando Allende si suicidò era già morto. Morto per le bombe lanciate contro di lui. Morto per sapere di avere avuto ragione e di non aver potuto imporla… Morto per il dolore del tradimento di colui nelle cui mani aveva posto la vita dello Stato e la sua propria, Pinochet». Il Cile moderno, con l’attuale crisi della politica, «proviene dalla falsa morte delle ideologie, perpetrata da un’ideologia egemonica… accompagnata… dal coro compiacente di certe élites che credono di aver salvato la società». La malinconica riflessione di Moulian è che il Cile sia un paese in cui «il futuro è la incessante riproduzione del presente, è l’imposizione di un progetto non ragionato». È un paese dalla «compulsione all’oblio… un paese sorto dalla matrice insanguinata della rivoluzione, ma che si purifica celebrando le sue nozze con la democrazia». Un matrimonio che, di fatto, si fa «battesimo che cancella il peccato originale».
Carmen Aguirre è figlia di profughi cileni che, all’indomani del golpe, furono costretti a darsi alla macchia e portarono la famiglia all’estero, prima in Bolivia e poi in Canada, tornando a più riprese in America Latina per condurre la lotta, ben sapendo quanto elevati fossero i rischi. I genitori dell’Aguirre, infatti, erano ai primi posti di una lista nera di ricercati, in larga parte giovani studenti universitari, molti dei quali vennero fatti sparire per sempre dal regime di Augusto Pinochet. Con doppia cittadinanza, cilena e canadese, Carmen Aguirre oggi è un’attrice di successo e ha raccontato gli anni da esule con sincerità e lucidità non comuni. A chi fosse curioso di saperne di più suggerisco la lettura dei suoi due memoir, Storia di una ragazza ribelle e Mexican hooker e altre cose che ho fatto dopo la rivoluzione (entrambi pubblicati in Italia da Nuova Editrice Berti). A quasi 50 anni esatti dagli eventi che sconvolsero il suo paese e, soprattutto, la sua vita, ha idee chiarissime e non ha avuto la minima esitazione a espormele.
Secondo lei, Salvador Allende era un vero rivoluzionario?
Io credo che Allende abbia tentato di implementare un programma rivoluzionario (con la nazionalizzazione delle miniere di rame, la riforma agraria, maggior accesso a istruzione pubblica e sanità gratuite e via discorrendo) senza la rivoluzione. Direi che era un riformista.
Che cosa affascinava particolarmente i suoi genitori e pure lei e sua sorella della dottrina di Allende?
Il suo tentativo di costruire una strada pacifica al socialismo nel contesto della Guerra fredda. È importante ricordare che, per l’America Latina e per il resto del Sud del mondo, la lotta per il socialismo va di pari passo con una lotta per la liberazione del proprio paese. Il che significa che il socialismo non può esistere senza una decolonizzazione. Allende tentò di fare entrambe le cose all’interno delle strutture del tempo e mediante una politica di tipo elettorale.
Dopo quasi 50 anni, riscontra qualche ingenuità nelle idee di Allende?
Ho sempre ritenuto ingenuo l’approccio di Allende. Mai e poi mai l’alta borghesia cilena e le multinazionali statunitensi e canadesi che avevano forti interessi nelle miniere di rame avrebbero consentito al Cile di prevalere in una lotta di liberazione nazionale e in una lotta socialista che passasse per elezioni politiche pacifiche. Se glielo avessero permesso, il resto dell’America Latina e del Sud del mondo avrebbero fatto altrettanto. Ecco perché Cuba passò per una rivoluzione armata: non c’era altro modo per trionfare. Del Cile andava fatto un esempio ed è per questo che il colpo di stato e la dittatura che ne seguì furono così violenti.
Oggi, come vede il Cile dal Canada?
Il Cile e l’Indonesia furono i primi laboratori neoliberali del mondo. Come vedo il Cile dal Canada? Il Cile per me ha sempre rappresentato un modello a cui guardare. Un terzo della popolazione è di sinistra e porta avanti da sempre la propria lotta senza alcuna paura. È lucidissimo nella sua analisi e nel suo approccio. Un anno fa, quando ci sono andata, le migliaia di studenti che scendevano in strada per chiedere un’istruzione pubblica gratuita e di qualità sono state per me l’ennesima fonte di ispirazione. Il popolo cileno è un esempio per tutto il mondo.
Cosa succederà l’11 di settembre in Cile, a 50 anni esatti dal golpe?
Credo che ci saranno tante commemorazioni per le persone che abbiamo perso e una dichiarazione dell’impegno a portare avanti la lotta.