Lo sdoganamento della Morte: dal tabù all’esibizione

Se prima era impossibile nominare una malattia come il cancro, ora interviste e dichiarazioni si moltiplicano, fino all’affermarsi del Funeral Planner.

Lo sdoganamento della Morte: dal tabù all’esibizione
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23 Gennaio 2024 - 13.48 Culture


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di Margherita Degani

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Nadia Toffa lo aveva chiamato Cancro fin dall’inizio, senza trasfigurazioni, aggiungendo  perfino l’hashtag all’interno dei suoi post. Ben Stiller annunciò simpaticamente di aver sconfitto quello alla prostata mettendo in rete la fotografia di una celebre scena di Tutti pazzi per Mary, durante la quale l’attore si toccava le parti intime. Michela Murgia ne ha fatto il principale argomento delle ultime interviste, definendo il Cancro una malattia gentile, contro la quale non serve usare un lessico di stampo bellico; fino a Shannen Doherty che, scoperta una recidiva incurabile, sta organizzando il proprio funerale: “so che sono discorsi che possono sembrare morbosi, ma devo affrontarli perché so che me ne sto andando”, afferma con il sorriso la celebre interprete di Beverly Hills, “voglio che il mio funerale sia sincero e che sia una festa d’amore”. Ma i nomi di chi ne ha parlato sono molti, tra i quali Lorella Cuccarini, la cantante internazionale Anastacia, Emma Marrone, Hugh Jackman, la giornalista e presentatrice Concita De Gregorio, lo scrittore Baricco, Fedez che saluta i fotografi dall’ospedale e il pianista Giovanni Allevi. Una delle prime a condurre questa battaglia linguistica, per l’affermazione della possibilità di parlarne senza veli né vergogna, fu poi Oriana Fallaci,che descrisse la malattia come un “alieno” capace di consumarla dall’interno. In seguito al consigliato silenzio del medico, scrisse infatti di essere rimasta allibita dall’offesa, “avere il cancro non è mica una colpa, non è mica una vergogna!”.
Raccontò minuziosamente anche i cambiamenti a cui il Cancro l’aveva portata, non facendo mistero della fatica e della spossatezza, del dolore fisico e dei tentativi messi in atto per sfregiarlo: “anche quando accendo una sigaretta mi sembra di sfidarlo – Teh brutto stronzo, che ti fumo in faccia”. 

Non è tuttavia sempre stato lecito parlare della malattia e ancora meno del Cancro nel suo specifico. Che cosa è cambiato recentemente? Ne abbiamo forse meno paura? A ben vedere, può quasi sembrare paradossale che una società come la nostra – tanto legata all’apparenza della perfezione e tanto incapace di accettare l’idea di qualunque malattia e di morte – esibisca casi di trattazione pubblica. Siamo di fronte a due processi contraddittori che, nonostante questo, vanno di pari passo. Potremmo anche chiederci se si tratti di pura e semplice esibizione, dell’ennesimo tentativo di trasformare in immagine  un momento tanto intimo oppure se davvero l’intento sia quello migliorare la percezione e l’esperienza della malattia. 

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Come sappiamo, gli Antichi avevano un rapporto molto diverso e schietto nei confronti della morte. Non già perché la temessero poco, ma poiché la consideravano parte della vita, ultima tra le tappe di un percorso di cui si aveva maggiore consapevolezza. La vita andava protetta e valorizzata proprio attraverso l’accoglienza del concetto di scomparsa. Così continuarono a credere i Padri della Chiesa, i filosofi ed i pensatori, probabilmente fino al secondo dopoguerra.

E’ questo il momento in cui qualcosa si spezza, portando ad un significativo ed inedito cambiamento socio-culturale all’interno del panorama occidentale. La morte viene negata, esclusa dalle pratiche comuni diffuse, interdetta soprattutto agli stessi ammalati ed ai bambini. La società della tecnologia e dell’informazione cala un velo di silenzio sull’inevitabilità di un fatto. Pensiamo a ciò che accade in America, dove specifiche aziende funerarie agiscono in modo tale che i parenti quasi non vedano il cadavere, facendo anche sparire, nel giro di pochissimi giorni, ogni oggetto del defunto dalla propria casa. Oppure la sorprendente Immortalità Digitale, una lista di servizi online dedicati a chi vuole sopravvivere a sé stesso attraverso email, messaggi vocali o comunicati video.

Certo, in parte questo accadeva già in passato, soprattutto alle generazioni di poco precedenti alla nostra. In quel caso, però, è presumibile si trattasse di un timore quasi reverenziale nei confronti di una malattia come il Cancro: incurabile, sconosciuto, capace di consumare lentamente il corpo dell’uomo e la vita dei suoi cari. Il punto non era nemmeno tanto la morte in sé, quanto la sofferenza specifica di quella brutta pestilenza. Vi era perfino l’idea che si trattasse di una punizione divina, tanto peggiore in base alle offese commesse. E le cose terribili, si sa,  hanno sempre tantissimi nomi che le indicano senza essere esplicite -“malattia/male inguaribile”,“lunga malattia”, “brutta malattia”, “male del secolo”, “brutto male” e così via. Di fatto, non si nominava per una sorta di pudore, vergogna o senso di fatalità che avvolgeva chi ne era colpito. A queste motivazioni di carattere conoscitivo e, per certi aspetti, anche religioso, seguirono poi quelle legate alla società moderna che in parte abbia già esplorato; parlando molto lucidamente del tumore che l’aveva colpita a soli 25 anni, anche la cantante Emma Marrone dichiara infatti di vivere “in una società che vuole essere supertecnologica ed ultramoderna, per la quale dobbiamo essere sempre perfetti e forti. In cui una malattia è una cosa da non raccontare perché ci rende imperfetti e vulnerabili nei confronti di chi ci sta vicino”.

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La rimozione della morte è però dannosa per l’individuo, proprio perché toglie le occasioni e dunque le possibilità di entrare in contatto con una parte ineludibile di realtà e impedisce di fare i conti con sé stessi, i propri sentimenti, la propria famiglia, il proprio lavoro e, in definitiva, con il senso stesso della vita. Per questo motivo, come sostengono sempre di più gli esperti in campo medico, la decisione di personaggi noti nel mondo dello sport, dello spettacolo e della politica di condividere pubblicamente la loro diagnosi di tumore è qualcosa di potenzialmente utile per tutta la comunità. Probabilmente è una scelta che può far sentire meno soli i pazienti e favorire la diffusione di screening o informazioni fondamentali sulla prevenzione. Sicuramente, se oggi non ci stupiamo nel vedere in tivù o sui giornali interviste e dichiarazioni di varia natura, è anche per la spinta che le diverse associazioni e le autorità sanitarie hanno promosso negli ultimi anni attraverso numerose campagne informative. Pian piano, quindi, si sta facendo  strada il messaggio che la malattia è qualcosa che può capitare a chiunque, senza che questo debba implicare vergogna e  mancanza di speranze.

Tirando le somme, possiamo affermare che se prima la paura era talmente grande da non poter nominare il Cancro o una simile malattia, oggi il punto non sta nell’averne di meno, ma nella libertà di poterne parlare per esorcizzarla, forse anche per ridimensionarla, entro certi limiti. A cambiare è il tipo di reazione di fronte ad una difficoltà che, senza dubbio, rimane di difficilissima gestione ed accettazione: da un lato mantenere il silenzio e probabilmente fingere che questo possa limitare la disgrazia, dall’altro esternarla talmente tanto da ridurre l’effetto paralizzante e trovare (o dare) comprensione negli (agli) altri.

E’ altrettanto evidente che le personalità di spicco, le celebrità ed i personaggi del mondo dello spettacolo hanno più canali e mezzi per poter mettere in atto questo processo. Proprio per tale motivo è bene che qualcuno di loro abbia già iniziato a farlo tanto apertamente.  Come avviene in ogni situazione, anche all’interno di questa inversione di tendenza ci sono dei distinguo da fare, tra chi vive  pubblicamente l’esperienza della malattia con dignità, per essere realmente d’aiuto e chi la cavalca per esibizione narcisistica. La scelta starà inevitabilmente alla coscienza ed all’integrità individuale, così come il giudizio alla sensibilità di chi guarda – e magari vive – tutto questo.

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