Tra Craxi e Strauss-Kahn: è Il Premier di Manfridi all'Argentina

"Il Premier" con Gabriele Lavia, Galatea Ranzi e la regia di Pietro Maccarinelli al teatro Argentina di Roma

"Il Premier" di Giuseppe Manfridi con Gabriele Lavia all'Argentina di Roma - intervista a Giuseppe Manfridi
"Il Premier" di Giuseppe Manfridi con Gabriele Lavia all'Argentina di Roma
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12 Febbraio 2024 - 19.28


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di Alessia de Antoniis

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Il 12 febbraio alle ore 21.00 Il Premier di Giuseppe Manfridi, spettacolo all’interno della Rassegna di drammaturgia italiana “Lingua madre, Il teatro italiano non fa schifo” si sposta eccezionalmente dal Parioli all’Argentina. Lo fa con una squadra d’eccezione: Piero Maccarinelli, che ne ha curato la regia, Gabriele Lavia, Federica Di Martino, Mersila Sokoli, Stefano Santospago, Galatea Ranzi e Duccio Camerini.

La cifra stilistica di Giuseppe Manfridi è inconfondibile: linguaggio accurato, scrittura fluida, ritmi sostenuti, semplici aggettivi che tratteggiano un carattere, descrivono una situazione, dipingono una scena, condividono uno stato d’animo.

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Lo spettatore è già nell’azione, al ritmo di un “ciack, si gira!”; non ci scivola lentamente, semmai ci sprofonda.

E nell’era dei “premier”, veri o recitati, vocati o semplicemente messi lì come per scelta di un regista pazzo, moderati o estremisti, che subiamo come la vendetta di una divinità stizzosa, giunti al potere quasi ad opera di un Fato che non si accontenta di una sola calamità, Manfridi dà vita al suo Premier. Molto umano e abbastanza italico.

Ma come nasce “Il Premier” di Giuseppe Manfridi?

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“Nasce su sollecitazione di Lavia – ammette Manfridi in intervista – interessato a un testo che raccontasse i grovigli della politica e dunque l’ordigno del potere visto da dentro. Ho colto da subito l’’dea di ambientare la storia in una villa presso Roma, di lì ho poi costruito il mio racconto, che si svolge tutto nell’arco di una sola notte, come peraltro il romanzo che ne ho tratto: “L’uomo di vetro” (La lepre Editore – nda)

La pièce racconta di un ex Premier della Repubblica Italiana inquisito per mafia. Prosciolto, dopo un periodo di esilio silente, intende candidarsi nuovamente. La realtà potrebbe offrirmi più della drammaturgia. Cosa differenzia il tuo premier da tanti parlamentari o da ex premier? Anzi, spesso non ci graziano neanche del periodo di esilio silente…

Silente per noi, ma non per chi sta a fianco del leader; penso a coloro che fanno parte del cosiddetto ‘cerchio magico’  e che dovranno collaborare alla messa in moto di una macchina capace di irrompere nella realtà all’improvviso, ma in modo tutt’altro che estemporaneo. Il potere funziona così. Ecco, è questo cerchio magico che mi interessa, in cui immagino l’avvento di due intrusi che si trovano a parteciparne smarriti e a rischio di essere travolti.

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Chi sono state le tue “muse ispiratrici” per questa drammaturgia?

Se intendi i modelli del mio personaggio posso riconoscervi aspetti di un grande tessitore politico come Craxi, ma anche l’irruenza belluina di Olivier Strauss-Kahn, e, per riandare a un grande calco letterario,  alla brama di potere di Riccardo III.

Mai come ora la realtà supera la fantasia. Oggi a cosa serve il teatro se Riccardo III è un uomo come tanti? Se re Claudio o Iago li ho nella vita reale? Se la satira è già nelle battute surreali di una classe politica arrogante e di scarso spessore culturale?

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Tutto fa parte di un pensiero sempre più ammassato e depresso, che è prodotto della globalizzazione. Anche il potere si è fatto più evanescente, ma non perciò trascendentale. I suoi simboli rimandano a quelli che un tempo avremmo chiamato misteri, oggi fake news. È la menzogna a regolare le sorti del mondo, che è rimesso tra le mani di chi sa gestirla meglio. Anche di questo parla ‘Il Premier’.

Aristofane, oggi, avrebbe guadagnato un euro?

Credo che si sarebbe adeguato per guadagnarne parecchi. Era provvisto di un’ispirazione dove la genialità non escludeva la scaltrezza. Al pari di Shakespeare.

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“Il Premier” è all’interno della rassegna organizzata da Pietro Maccarinelli del teatro Parioli di Roma  “Lingua madre – Il teatro italiano non fa schifo”. C’è bisogno di ricordarlo?

Meglio farle. Una rassegna che propone altri tre testi, oltre il mio, a firma di Lidia Ravera, Rosa Menduni e Roberto De Giorgi, e di Sergio Pierattini.

E se il teatro italiano non fa schifo, la lingua madre come sta messa?

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In lotta. Non abbiamo l’attitudine dei francesi che sanno difendere la loro mettendo al bando gli anglismi addirittura dal Rolland Garros. L’italiano è una lingua meravigliosa: il teatro può far molto – e lo fa! –  per  ribadire la necessità di goderla in tutta la sua ricchezza, che molto deve anche ai localismi dialettali. È una lingua inclusiva. La sua storia è caratterizzata da un non trascurabile significato etico, a cominciare dal fatto che a donarcela è stato sopra tutti un poeta con la sua Commedia.

Il teatro è sempre stata una zona franca o, almeno, è riuscito a confondere il vero con il verisimile e a fare opposizione politica anche in periodi bui. Ha ancora questa forza?

Il teatro vive sempre, e da sempre, di forze insperate. Si confronta col potere poiché sostanzialmente, anche quando sembra parlare d’altro, parla sempre di questo. Addirittura una storia d’amore come “Romeo e Giulietta” è una storia che ha al suo centro il potere. Aggiungo che è consuetudine per il teatro vivere nella penuria, ma proprio per questo ha acquisito anticorpi che ne determinano l’identità e la sostanziale invulnerabilità. Insomma, col teatro c’è di che essere sempre fiduciosi, purché a lunga scadenza. Nell’attualità che ci riguarda più da vicino, non c’è dubbio che il momento sia particolarmente difficile. Qui in Italia soprattutto, e a Roma, città votata all’automutilazione, ancor di più. Venendo, con ciò, al seconda domanda…

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Ci sono nuove leve coraggiose?

 La mia visione della realtà è parziale. Confesso di aver visto poco ultimamente. Sarà per la selezione che mi impongo nelle uscite, ma mi son trovato ad assistere a spettacoli eccellenti come “Love’s kamikaze” di Mario Moretti e “Farà giorno” di Menduni e De Giorgi. Due testi scritti diversi anni fa e che eppure sanno entrare con forza straordinaria nella materia viva del nostro presente, a conferma di come la parola scenica abbia caratteri di assoluta insostituibilità. Certo, i media hanno abbassato in ogni direzione e senso i livelli linguistici, ma il doversi far carico, da teatranti, di un certo impegno restaurativo è anche una responsabilità entusiasmante.

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