Los Angeles: alle radici della cultura pop
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Los Angeles: alle radici della cultura pop

Los Angeles e le radici della cultura pop" di Claudio Castellacci offre uno sguardo approfondito sulla metropoli e la sua influenza culturale.

Los Angeles: alle radici della cultura pop
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21 Marzo 2024 - 00.32


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di Rock Reynolds

È la città che non c’è. È la città più estesa del mondo o, forse, la è stata fino a qualche anno fa. È la città delle tante città. Semplicemente, è Los Angeles. Per molti, un non-luogo. Per altri, il posto più eccitante del globo.

È da anni che sostengo che il corrispondente di una grande testata dall’America come probabilmente da ogni altro paese straniero non possa prescindere da una conoscenza approfondita di una serie di elementi fondanti di quella nazione: il territorio, la storia, la lingua e, soprattutto, la gente e la cultura in tutte le sue forme.

Serve, dunque, partire da una full immersion nella cultura locale. Claudio Castellacci, nella sua lunga permanenza negli USA da corrispondente del Corriere della Sera, ha avuto modo di calarsi abbondantemente in quelle realtà, ma la sua competenza si stacca con merito da uno studio didascalico di un mondo così diverso dal nostro. Il suo interessante saggio Los Angeles e le radici della cultura pop (Odoya, pagg 326, euro 24) lo testimonia abbondantemente, regalandoci quella che, in fondo, può essere una semplice esperienza di lettura arricchente ma pure – perché no? – una sorta di guida turistica per chi abbia voglia di capire Los Angeles, cuore pulsante della California, senza limitarsi a una visita al Sunset Boulevard e a Venice Beach e senza ridursi a una banale foto ricordo con la celebre scritta “Hollywood” sullo sfondo. D’accordo, la California non è esattamente rappresentativa dell’universo a stelle e strisce, che trova maggiore omogeneità lontano da entrambe le coste. Di tale omogeneità si fanno eccezione proprio la California e l’intera costa pacifica così come New York e buona parte della costa atlantica, oltre che qualche centro urbano legato a poli accademici progressisti nell’interno. Resta il fatto che avere il polso della situazione non solo in relazione alle elezioni presidenziali, allo stato dell’economia e all’apatica accettazione popolare delle scelte del paese sullo scacchiere internazionale è un prerequisito fondamentale. Diffidate dei comunisti pentiti, dunque, soprattutto se con le bretelle. Si tratta di cronisti che sembrano vivere in una bolla, che pensano di essere ancora impegnati nella guerra del Golfo e, dunque, scelgono di scrivere i loro pezzi dal solarium di un grande albergo per la clientela internazionale invece di sporcarsi le mani nel fango e nel sangue. È così che finiscono per inviare nel vecchio continente reportage asettici che con il reale sentire degli USA o, quanto meno, di una parte di essi non hanno minimamente a che vedere.

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Castellacci, fortunatamente, ci accompagna in una carrellata caleidoscopica di quelle che, di primo acchito, possono apparire mere bizzarrie hollywoodiane, ma che, a conti fatti, rappresentano la realtà in rapida trasformazione di una città e di una popolazione che non hanno il tempo per una vita a ritmi blandi e che la bellezza – e in questo sì che si coglie una caratteristica unitaria dell’America – la devono cogliere in movimento. Non è un caso se i famosi ristorantini “drive-in” hanno preso piede soprattutto qui, dove la pausa pranzo è al massimo una sosta-ristoro.

Dopo aver ribadito che gli USA sono un grosso paese – che siano un “grande” paese è ancora tutto da dimostrare – e che, dunque, le distanze in miglia sottendono differenze talvolta sostanziali, un elemento di uniformità esiste e molte cose sono identiche a Los Angeles, New York, Appalachicola (Florida), Charlotte (North Carolina) e Farmer City (Illinois). Le abitudini alimentari, per esempio. La religiosità ostentata. Il tributo alla bandiera, chiamata con affetto “Old Glory”.

Ma Castellacci parla eminentemente di California. E Los Angeles è una città in cui si costruiscono enormi castelli medievali, sontuose dimore in stile Tudor, palazzi dall’aria ispanica che castigliani e catalani non saprebbero dire dove abbiano trovato ispirazione, semplicemente perché in Spagna non c’è nulla che vi assomigli lontanamente. Il tutto, naturalmente, falso come una borsetta di Louis Vuitton fatta in Cina e venduta da un vu cumprà. Ed è pure la città che, in men che non si dica, decide di piallare interi quartieri, con tanto di castelli, dimore e palazzi, per far posto a una nuova megastrada oppure a un quartiere di ultima concezione e design: fare tabula rasa costa meno ed è più eccitante e, sotto questo aspetto, ancora una volta la “Città degli Angeli” fa da traino al resto della nazione. Peccato che le nuove lottizzazioni urbane siano pensate in stili che in larga parte sono, a loro volta, contraffatti. Ma Los Angeles è pure la città in cui una figura discussa come Eve Babitz – la saggista e romanziera frequentatrice di ambienti e maschietti intellettualmente evoluti e a cui si ascrive, tra gli altri, un flirt importante con Jim Morrison, altro cittadino celebre di L.A., ma pure con la fotografa Annie Leibovitz, per non farsi mancare niente –  se ne andava in giro a fotografare le ultime vestigia del vecchio impero del falso prima che anch’esse venissero abbattute. Insomma, della serie preservare certi inni al kitsch a beneficio delle generazioni future, quasi al fine di renderle avvezze al brutto che avanza. Naturalmente, in questo tripudio urbanistico di indecenze all’insegna dell’opulenza e di una indubbia libertà dei costumi, ci sono pure numerosissimi esempi di eccellenza architettonica e costruttiva. Bisogna solo trovarli, sempre ammesso che si desideri farlo. Tutto sommato, abbandonarsi all’osservazione passiva dal finestrino di un’automobile può essere la scelta più adeguata in una “città-stato mentale” che ci dice quanto quel mezzo di locomozione resti il cavallo del West contemporaneo. D’accordo, secondo il grande autore di fantascienza Ray Bradbury, la scelta di costruire linee metropolitane sotterranee su rotaia invece di potenziare quelle di superficie – che pare che fossero alquanto diffuse in questa megalopoli – è stato un errore imperdonabile, che ha vanificato un destino potenzialmente molto diverso. Ma Los Angeles è la capitale dell’impossibile, il luogo in cui, in base a uno dei mantra universali a stelle e strisce, l’importante è la libera iniziativa: la pubblicità è l’anima del commercio e, secondo i più maliziosi, in politica si chiama propaganda, un’arma in grado di ammannire qualsiasi cosa al popolo, proprio come gli antichi imbonitori di strada appioppavano due o tre confezioni di un prodotto a chi, probabilmente, non aveva necessità di comprarne nemmeno una. Los Angeles racchiude il meglio ma, soprattutto, il peggio dell’americanità, compresa l’ossessione di essere invasa tanto dagli alieni quanto dai biechi comunisti. Chissà quante decine di migliaia di rifugi antiatomici furono fatti costruire in piena Guerra fredda e rimasero fortunatamente inutilizzati, se non per stoccarvi cianfrusaglie o per fare da rifugi anti-tornado: ah, già, di trombe d’aria in California non se ne registrano tante. Nel dopoguerra, la paura di una contrapposizione militare tra il blocco del bene e quello del male fu tale da alimentare progetti nucleari esosi. L’era atomica fu sdoganata come un’autentica conquista senza rischi al punto che, come ci illustra Castellacci con l’ausilio di interessanti foto d’epoca, si pubblicizzarono e vendettero giochi per bambini davvero inquietanti, non che Barbie e compagnia bello non li fossero: il “Laboratorio di Energia Atomica Gilbert”, una sorta di piccolo chimico con licenza nucleare e tanto di campioni di materiale radioattivo (“testato e sicuro”) fu messo in commercio nel 1950.

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Ed è a Los Angeles che, più che altrove, si apre il “Secolo Americano”, con la vittoria dell’esercito a stelle e strisce nelle due guerre mondiali e l’imposizione della pax americana. Una pace che, come accade sempre quando trionfa una super-potenza, prende corpo attraverso l’acquisizione dei modelli culturali dei vincitori da parte dei popoli sottomessi. Lo fece la Roma imperiale e, in fondo, l’aquila reale americana non è tanto diversa da quella dei vessilli dei legionari. E le lusinghe della cultura pop, di semplice fruizione e capillare diffusione, erano irresistibili. In Los Angeles e le radici della cultura pop vi imbatterete nelle storie variegate del vate della pop art Andy Warhol – per il quale «In America, anche se sei ricco finisci per comprare le cose dei poveri» – del pittore David Hockney, del compositore Igor Stravinsky, di Marilyn Monroe e dei suoi due amanti impossibili – i fratelli John e Bob Kennedy – ma soprattutto del loro parrucchiere, di Walt Disney, degli Eagles, di Humphrey Bogart, del romanziere e dottore mancato Michael Crichton, a suo modo icona pop divenuta nell’ultima parte della sua vita fascistone negazionista – anche se non sono certo che di questo Castellacci sia al corrente – e di tantissimi altri.

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Leggete Los Angeles e le radici della cultura pop e diffidate delle bretelle rosse.

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