E' in libreria "La musica nel Cinema" di Cristina Cano
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E' in libreria "La musica nel Cinema" di Cristina Cano

Linguaggio narrativo o semplice accompagnamento? Da Lo Squalo a Ghost, la musica come cuore invisibile del racconto cinematografico

La musica nel cinema di Cristina Cano - Gremese Editore - recensione di Alessia de Antoniis
"La musica nel cinema" di Cristina Cano - Gremese Editore
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6 Maggio 2025 - 19.53


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di Alessia de Antoniis

Che cosa sarebbe Lo squalo senza quelle due note che salgono dal silenzio come un predatore? E cosa resterebbe di Ghost senza Unchained Melody, che trasforma l’argilla in una delle scene più iconiche del cinema romantico?

La musica al cinema è un semplice accompagnamento emotivo o un vero linguaggio narrativo? A queste domande prova a rispondere Cristina Cano, musicologa e docente di semiologia della musica al DAMS di Bologna. Per lei il cinema senza musica perderebbe non solo colore, ma senso, direzione, profondità. E il suo saggio La musica nel cinema. Musica, immagine, racconto (Gremese Editore) ne è la dimostrazione teorica, critica ed estetica più ampia oggi disponibile in Italia.

Il volume, ripubblicato in una nuova edizione “ampiamente riveduta e ampliata”, è molto più di un aggiornamento del lavoro del 2003. È un libro completamente ripensato: denso, affilato, libero da compromessi divulgativi, ma insieme leggibile, concreto, vivo. “Pochissimi tra tante firme illustri si erano avvicinati a una definizione consistente ed esplicativa del concetto di Musica”, scrive Cano. Da questa constatazione – raccolta nella notte di Natale del 2019, leggendo aforismi sulla musica – nasce l’esigenza di fare chiarezza: cosa fa la musica quando incontra il cinema? E come la trasforma?

La tesi è netta: la musica non accompagna. Non illustra. Non riempie i vuoti. La musica agisce. Cambia la percezione. Sposta il senso. Possiede un potere trasformativo che non è subordinato all’immagine, ma complementare, spesso decisivo. Questo potere Cano lo analizza da due angolature: semantica, come veicolo di significati, e pragmatica, come forza che agisce sulla relazione tra film e spettatore. È in questo doppio binario che si gioca l’originalità del libro.

Fin dalle prime pagine, l’autrice adotta un approccio etnomusicologico ampio: per lei “musica” è tutto ciò che produce forma sonora dotata di ritmo e altezza, inclusi rumori, voci, silenzi organizzati. Questo permette un’indagine capillare del linguaggio cinematografico in senso esteso, non solo delle colonne sonore tradizionali. L’obiettivo non è spiegare la musica nel film, ma spiegare il film attraverso la musica.

Uno dei concetti più affascinanti è quello di stato sincretico, mutuato da Michel Chion e rielaborato in chiave semiotica: è ciò che accade quando suono e immagine, sincronizzati, producono un significato nuovo, emergente dalla loro interazione. Cano lo spiega con la celebre sequenza de Lo squalo: quelle due note minacciose, unite al movimento della camera in soggettiva, inducono lo spettatore a interpretare il motivo musicale come segnale dell’attacco imminente. È una saldatura semiotica, non una somma: insieme, suono e immagine, diventano un nuovo segno. E in questo nuovo segno, la musica smette di essere colonna: diventa carne, tensione, tempo, direzione, ritmo interno del racconto.

Altro caso emblematico: Ghost, 1990. Cano analizza come Unchained Melody assuma qui una doppia funzione: narrativa e di commento. Il brano viene trasformato in attore fonico, cioè soggetto operatore con funzione narrativa. La musica non dice “è una scena romantica”. Dice è “la” scena romantica. Ne è il motore invisibile. L’anima segreta.

La seconda parte del volume si concentra sulle funzioni pragmatiche della musica: narrativa, poetico-estetica, identificativa, conativa, referenziale, metalinguistica, mnemotecnica. È qui che Cano dispiega tutto il suo impianto teorico, con esempi che vanno da Fantasia a Kubrick, da Allen a Greenaway. L’autrice sottolinea. Ad esempio, come la competenza musicale di Woody Allen gli consenta di usare Brahms o Gershwin con esiti mai scontati e sempre interessanti, affidando alla musica una funzione che è insieme commento ironico e codice di appartenenza per lo spettatore colto.

Particolarmente potente è il capitolo sulla funzione poetico-estetica: quella che fa della musica cinema in sé. È la funzione che lavora sull’atmosfera, sull’aura, sul non detto. Ma anche la più fragile nel panorama contemporaneo, dominato da algoritmi, convenzioni e colonne sonore standardizzate. Il mittente oggi non è più un mecenate, ma un datore di lavoro, scrive Cano con una punta di amara ironia. E tuttavia, proprio nei film che rischiano di più – Barry Lyndon, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante – la musica raggiunge esiti artistici alti, “in antirealtà”, come se avesse un potere deformante, straniante, lirico.

La scrittura di Cano alterna chiarezza didattica e intensità critica. A tratti il linguaggio è tecnico – si parla di “funzione conativa” o “sincresi tattilo-cinestesiche” – , ma ogni concetto viene ancorato a esempi vivi. Non c’è mai autoreferenzialità accademica: c’è gusto per il dettaglio, ma anche desiderio di condividere.

Cosa rende questo libro necessario oggi?

Il fatto che non parla solo agli studiosi. Parla ai registi, agli spettatori, agli appassionati. Parla a chiunque abbia capito – o voglia capire – che senza suono non c’è immagine che tenga. Che il montaggio non è solo visivo, ma ritmico. Che “sentire” un film significa non solo ascoltare, ma interpretare. E che la musica, ben più delle parole, costruisce lo spazio emotivo in cui il cinema respira.

Cristina Cano ha scritto un saggio che si legge come si ascolta una partitura complessa: c’è bisogno di attenzione, ma la ricompensa è alta. Alla fine della lettura, lo spettatore che siamo cambia orecchio. E torna al cinema non solo per vedere un film, ma per sentirlo davvero.

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