“L’amore che ho”: la vita di Rosa Balistreri tra miseria, ribellione e musica
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“L’amore che ho”: la vita di Rosa Balistreri tra miseria, ribellione e musica

Il regista Paolo Licata intreccia tragedia e poesia raccontando la vita di Rosa Balistreri, cantastorie ribelle forgiata da miseria, violenza e passione.

“L’amore che ho”: la vita di Rosa Balistreri tra miseria, ribellione e musica
Una scena del film l'Amore che ho
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6 Maggio 2025 - 12.06


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di Maria Antonietta Coccanari

   La vita dura della leggendaria cantastorie siciliana Rosa Balistreri (1927-1990) è raccontata in questo film coinvolgente di Paolo Licata, liberamente tratto dal romanzo di Luca Torregrossa nipote della cantante.

    Rosa si ribella alle ingiustizie sociali sin da piccola, nasce in una famigli dalla miseria bestiale, segnata da femminicidio e violenze varie. 

    Rosa, per sopravvivere a tutto, ha sublimato tutto nell’imparare a leggere e a scrivere quando è già grande, nella Musica che la incantava da sempre, e nell’affermazione della sua Arte. La risata, la distanza emotiva dal dolore, sono altre difese per rialzarsi sempre dalla tragedia. 

    Le sue canzoni, e la sua voce, sono la denuncia contro la mafia e ogni sopruso, sono la difesa per i diritti dei lavoratori e della donna, e il PCI, in un momento storico cruciale, la sente portavoce dei suoi valori, “messaggera del popolo e voce del partito”. Per “aprire le porte della Storia”. Queste canzoni splendono anche di speranza di cambiamento, e di una poetica che attinge al fiabesco popolare e mette gentilezza struggente nel fango e nel sangue.

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    La Balistreri diventa amica d’intellettuali e artisti come Otello Profazio, come Dario Fo e Franca Rame, come Guttuso che le dedica il disegno “una rosa per Rosa” che diventa la sua cosa preziosa, e Camilleri che la chiama da vecchia per fare una pièce dalla sua storia. Forse solo da vecchia capisce quanto abbia odiato e amato eventi cose e persone: un fidanzato che l’abbandona per la sua povertà e che le chiederà inaspettatamente perdono solo in punto di morte; un genero violento e alcolizzato, un cognato violento e alcolizzato che ucciderà sua sorella e per questo Rosa trova suo padre (Vincenzo Ferrera) impiccato. C’è soprattutto l’eterno conflitto con sua figlia, obbligata al collegio quando Rosa va in prigione per una sforbiciata al marito, naturalmente anche lui violento e alcolizzato. Ma c’è un nipote come un figlio secondo, la cui dolcezza consola presente e memorie fino all’ultimo giorno della sua vita per accompagnarla alla morte con bugie pietose e verità profonde.

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    Un film dalle emozioni forti in cui il flashback tempestoso risolve le diverse fasi della Storia e della vita con interpreti diverse. Rosa bambina è Martina Ziami, ragazza è Anita Pomario, adulta è Donatella Finocchiaro e da vecchia è Lucia Sardo: quattro interpretazioni sublimi. Casting sapiente anche nel far assomigliare somaticamente attrici di base piuttosto dissimili.

   Incursioni continue in tutte le età lasciano in sospensione continua tante vicende, danno spessore all’universo complesso di Rosa perché, rifiutando la cronologia lineare, sommergono lo spettatore d‘interrogativi prolungati anche nei ralenty oppressi da cupi suoni-rumori. Stessi interrogativi che intridono i protagonisti tormentati dall’oggi e dai ricordi, e che trovano risposte nell’ultima parte di un film piuttosto lungo (121’) ma appassionante e appassionato. 

   Scene fatte di strade e d’interni oscuri improvvisamente assolati o abbagliati da mille colori, specie il rosso, in contrasti simbolici e assai efficaci; e certe scene in cui la medicazione delle ferite del corpo è un altro simbolo di dolore e riparazione; appaiono le più emotivizzanti, con rimandi sacrali di rara potenza. Crudi segni dei fatti. Ma anche opportunità per quel contatto fisico finalmente amoroso sempre rimandato nei rapporti offesi da troppe occasioni mancate tra avvicinamenti e fratture.

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  Sì, la passione è il suo stigma. E’ Carmen Consoli, la massima esperta di Rosa Balistreri, sua guida prima reale e poi interiore, che con devozione scrive le musiche del film e si ritaglia un cameo (la detenuta). Ma la sua passione si sente dietro tutta l’opera oltre che nella colonna sonora. E si sente anche quella del giovane regista che aveva già firmato un film al femminile, “Picciridda“, dal romanzo di Catena Fiorello. Lui, laureato in giurisprudenza, figlio di un direttore d‘orchestra lirica e di una pianista, porta la Musica al centro e indovina anche il ritmo per un film tanto pieno e intenso. Mette tutte le sue competenze e sensibilità in una trama in cui reati arte e cultura s’intrecciano come continue conseguenze di se stessi.

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