"La denuncia" di Ivan Cotroneo: 50 minuti per ribaltare la morale

Al teatro Belli di Roma un duello teatrale che sfida morale e verità. Con Marta Pizzigallo ed Elisabetta Mirra

La denuncia - di Ivan Cotroneo - con Marta Pizzigallo ed Elisabetta Mirra - recensione di Alessia de Antoniis
La denuncia - di Ivan Cotroneo - con Marta Pizzigallo ed Elisabetta Mirra
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

11 Maggio 2025 - 15.10


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di Alessia de Antoniis

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50 minuti. Solo 50 minuti per smontare il reale e ribaltare la morale. Tre quadri come tre pezzi di uno specchio che si rompe riflettendo tre immagini della stessa realtà. Tre immagini divergenti, contraddittorie, irriconciliabili.

La denuncia, scritto e diretto da Ivan Cotroneo – in scena al Teatro Belli di Roma dal 6 all’11 maggio all’interno della rassegna Expo – Teatro Italiano Contemporaneo e 17 e 18 maggio al Teatro Gerolamo di Milano – è un atto teatrale secco come uno schiaffo, acuminato come una lama verbale. Due attrici straordinarie si fronteggiano in un duello dialettico, etico e affettivo, che mette in discussione ogni certezza: del pubblico, delle protagoniste, della società.

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50 minuti per uno spettacolo che è una miniatura perfetta di tensione drammaturgica, interpretata con una potenza chirurgica da Marta Pizzigallo ed Elisabetta Mirra.

C’è un’aula scolastica, ma non c’è lezione. C’è un’accusa, ma non c’è tribunale. C’è una ragazza. C’è una professoressa. Ma non si sa chi delle due stia mentendo. O peggio: forse dicono entrambe la verità. O la loro.

Il testo è costruito come una partitura a tre tempi, ma ciò che conta non è la cronologia degli eventi – mai mostrati, solo narrati – bensì la loro rielaborazione: emotiva, strategica, ingannevole. Cotroneo non ci mostra il fatto, ma la sua molteplice narrazione, truccata, sfocata, contraddittoria. La verità non esiste. Esistono versioni. E chi sa raccontarle meglio.

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In scena Clelia, la docente – Marta Pizzigallo – e Alice, l’alunna – Elisabetta Mirra – danno vita a uno scontro diretto micidiale, un crescendo di accuse, strategie e ambiguità. Un corpo a corpo linguistico che lascia addosso il senso di colpa di una guerra persa.

La pièce si apre in medias res: due donne si raccontano, ma non si parlano. Non ancora. Si rivolgono a un’assenza, la preside, e al pubblico, che diventa orecchio, giudice, complice.

Una cerca di spiegare. L’altra di farsi credere. I racconti si contraddicono, si sovrappongono, si smentiscono da soli. Ogni frase è una trappola. Ogni parola è un’arma. Nella prima sequenza, il teatro è puro montaggio mentale.

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Poi la scena cambia. Le due donne sono sole. Finalmente si guardano. E il teatro cambia pelle. Qui Cotroneo colpisce senza pietà: trasforma il testo in un duello dialettico di precisione chirurgica. Un incontro che è anche uno scontro, un tentativo disperato di farsi riconoscere, amare, credere. Chi manipola chi? Chi sta abusando di chi? Chi usa il proprio ruolo, il proprio corpo, il proprio silenzio? “So usare il mio corpo, se devo”. “Un bacio per il tuo futuro”. Ma non c’è morale. Non c’è vendetta. Non c’è redenzione.

Soprattutto: c’è davvero una sola colpevole?

La forza de La denuncia sta nel suo rifiuto di fornire un verdetto. In un mondo ossessionato dal giudizio e dal bianco o nero, Cotroneo costruisce una tragedia ambigua e contemporanea, dove ogni parola è sospetta, ogni gesto è reversibile.

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Pizzigallo e Mirra incarnano alla perfezione questo scarto continuo tra verità e finzione. La prima è composta, tragicamente dignitosa. La seconda è inquietante, potente, sfuggente. Sono due donne, due età, due visioni del mondo che si scontrano e si rispecchiano, fino a diventare quasi intercambiabili. Nessuna è vittima, nessuna è carnefice. Entrambe sono colpevoli di qualcosa.

Il ritmo è teso, serrato, come un interrogatorio. Ogni battuta potrebbe ribaltare la scena. Una pièce sul cosa siamo disposti a credere e perché. Chi ha diritto a essere creduto? E quando una storia, ancorché falsa, diventa reale? Forse quando cambia il corso di una vita? Perché spesso “bastano mezz’ora e qualche parola senza testimoni per cambiare la vita di una persona”. Per sempre.

Cotoneo dirige con una regia minimalista e mentale. La scrittura è cruda, sincopata, faticosa. È materia grezza che rende il testo potente.

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“In che senso il fatto che non sia sposata non aiuta le cose? Che cosa sta insinuando? Lo dica chiaramente. Sta forse sottintendendo che potrei essere omosessuale, vero? Le farò una confessione: sono lesbica. Perché è questo che basta, no? Siccome io sono lesbica e lei è una bella ragazza e io non mi sono riuscita a trattenere…”

Una drammaturgia fortemente metatestuale dove la responsabilità più inquietante non è nelle due protagoniste. È fuori scena. È nella scuola. Nella dirigenza. In quell’istituzione che, pur sapendo di trovarsi davanti a una vicenda ambigua, sceglie di non sapere. Sceglie di non accertare la verità, ma di “gestire il caso”. Per non avere grane. Per non dover affrontare una denuncia. Per non mettere in discussione l’immagine dell’istituto. E così, chi dovrebbe tutelare il merito, la giustizia, la trasparenza, premia la voce che grida più forte. Perché non è la verità che viene premiata. È la narrazione più pericolosa. È il rischio potenziale di uno scandalo.

Un testo su come il perbenismo, l’apparenza, la paura del confronto reale creino un sistema ingiusto, in cui il potere, anche quando ha gli strumenti per difendersi, sceglie di non usarli.
Clelia potrebbe salvarsi, ha le prove, ma non lo fa. La preside potrebbe ascoltarla, ma non lo fa. Nessuno vuole davvero sapere com’è andata. Perché sapere è scomodo. È meglio chiudere la pratica.

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Questo è il vero crimine che Cotroneo mette a nudo: una società che preferisce tacere pur di mantenere l’ordine apparente. E in quel silenzio, il potere cede, il ricatto vince, il merito muore. La verità non interessa più a nessuno e si premia la versione che fa meno rumore. Anche se è falsa.

Ecco dove La denuncia colpisce più di ogni dramma giudiziario: non accusa nessuno in scena. Accusa noi. Il nostro perbenismo. La nostra ipocrisia. La nostra ossessione per l’apparenza. La nostra paura di affrontare le cose per quello che sono.

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