di Antonio Salvati
Israele è un Paese di cui si parla molto – negli ultimi anni quasi sempre per i fatti di cronaca di guerra che campeggiano le prime pagine dei quotidiani quasi ogni giorno – ma che si conosce poco. Come ha osservato recentemente la scrittrice Anna Momigliano – autrice del recente volume Fondato sulla sabbia. Un viaggio nel futuro di Israele (Garzanti Milano 2025, pp. 176, € 18,00) – la sua società, la sua cultura e la sua storia restano, in buona parte, un argomento relegato ai margini o, peggio, piegato a scopo propagandistico, cosa che avviene sia nel campo filo-israeliano sia nel campo anti-israeliano: «spesso, per quanto non sempre, sembra quasi che l’obiettivo sia rappresentare gli israeliani come intrinsecamente buoni, o intrinsecamente cattivi, anziché comprendere una società complessa, variegata, che sta vivendo cambiamenti rapidi e di portata epocale».
Pochi sanno che il 45% per cento degli ebrei israeliani si considera mizrahì, ossia di origine mediorientale; a questi occorre poi aggiungere un 3 per cento di origine etiope e un 8 per cento di origine «mista». Pertanto, soltanto il 44% degli ebrei israeliani – che corrisponde al 35% della popolazione israeliana nel suo complesso – è di origine europea.
Occorre tener presente che gli arabi in Israele sono quasi due milioni, poco più del 20% della popolazione di Israele. Si dice arabi e non palestinesi perché non tutti gli arabi israeliani sono palestinesi: ci sono anche i drusi e i circassi, due gruppi a parte distinti e separati dai palestinesi d’Israele. Tornando ai mizrahì, la loro consistenza – che sta a significare che la maggior parte degli israeliani oggi è la combinazione di diverse storie – la rileviamo nell’influenza mediorientale sulla cultura israeliana, dalla musica al cibo: la shakshuka, l’onnipresente piatto a base di uova, sugo di pomodoro e verdure che alcuni considerano sinonimo della cucina israeliana, è in realtà una pietanza magrebina, particolarmente diffusa tra gli immigrati marocchini negli anni Cinquanta perché costituiva un pasto proteico, gustoso ed economico.
Secondo la Momigliano possiamo trarre anche una considerazione di natura prettamente politica. Negli ultimi anni si è diffusa la tendenza a leggere il conflitto israelo-palestinese, oltre che secondo i consueti punti di vista, anche in chiave razziale: «da un lato i palestinesi, mediorientali, dalla pelle scura, una popolazione “razzializzata”; dall’altro gli israeliani, europei e bianchi. La verità è che il conflitto israelo-palestinese può essere analizzato da molte prospettive – religiose, etniche, territoriali, nazionali e, non ultimo, coloniali –, ma quella razziale non è certamente una di queste». In altri termini, Israele è un patchwork multietnico, un crogiolo multiforme: la mescolanza di usanze e culture, da Oriente e da Occidente, permea la cultura israeliana in ogni suo aspetto, dalla musica al cibo, passando per la letteratura. Israele è, per lo più, una nazione di immigrati, come gli USA, il Canada e l’Australia.
Lo scrittore Amos Oz sosteneva che Israele è un luogo dove «tutti vengono da qualche parte». Ovviamente Oz non considerava i palestinesi con la cittadinanza israeliana. Tuttavia, anche se per quanto riguarda la maggioranza ebraica Israele è un paese di immigrati, oggi soltanto il 19% di loro è nato altrove. Aggiungiamo che Israele ha una popolazione estremamente giovane: più di un quarto degli israeliani ha meno di quattordici anni e circa la metà ne ha meno di trenta. Gli israeliani di oggi sono i figli, i nipoti e i bisnipoti delle grandi aliyot (letteralmente “salita”, ossia ondata migratoria di ebrei verso lo stato di Israele). Sulla straordinaria e singolare dinamicità della demografia israeliana ci sarebbe assai da dire. Ci limitiamo a rilevare che secondo le proiezioni Israele (che oggi conta dieci milioni di abitanti) potrebbe arrivare ad avere quasi 16 milioni di abitanti entro il 2050 e ad avere – secondo il demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola – la densità di popolazione più alta del mondo occidentale.
Qualche considerazione in più la meritano le forze armate – in ebraico Tsahal, acronimo che sta per Tsva ha-Haganà le-Yisra’el, “esercito per la difesa di Israele”, all’estero spesso nominato anche con l’acronimo inglese Idf, Israel Defense Forces – in qualità dell’influenza considerevole che esercitano in molti ambiti della società, dalla politica all’economia passando per il sistema mediatico. Per molti israeliani rappresentano un capitolo importante della loro vita. Una delle prime cose che colpiscono chi ha visitato il paese è il numero di giovani con le caratteristiche uniformi verdi o beige con i quali ci si imbatte in ogni angolo. Li si incontra ovunque.
La Tsahal, cosa assai inusuale per l’esercito di una nazione altamente sviluppata, si basa soprattutto sul servizio di leva obbligatorio, di tre anni per gli uomini (nei periodi di pace può essere ridotto a trentadue mesi) e due per le donne. Dopo questo periodo, gli israeliani possono essere richiamati ogni anno per un servizio di riserva detto miluìm, fino all’età di quaranta, quarantacinque o quarantanove anni a seconda del genere e del ruolo: il miluìm, che nei fatti riguarda quasi solo gli uomini, ha un posto speciale nella psiche collettiva degli uomini israeliani, perché significa avere un piede nell’esercito per circa vent’anni, interrompere la vita civile per tornare a indossare la divisa. Il servizio militare obbligatorio riguarda soltanto una parte della società israeliana, circa il 70 per cento degli uomini e circa il 60 per cento delle donne della popolazione ebraica: il peso delle armi è sostenuto quasi interamente dagli ebrei laici (rappresentano il gruppo più consistente per il quale la religione non svolge un ruolo centrale nella vita quotidiana) e dalla minoranza nazional-religiosa (che rispetta i precetti dell’ebraismo ortodosso insieme ai valori del sionismo nella sua versione di destra e nazionalista). L’influenza dell’esercito nella società israeliana si estende all’economia, alla politica e al sistema mediatico del paese. Molti dei leader politici più importanti dello stato ebraico sono stati generali: Moshe Dayan, laburista, già ministro degli Esteri e della Difesa; Yitzhak Rabin, laburista, due volte ministro della Difesa e due volte primo ministro, che firmò gli accordi di pace negli anni Novanta e poco dopo fu assassinato da un estremista religioso; Ariel Sharon, ministro degli Esteri e della Difesa e primo ministro, eletto con il partito di destra Likud e poi fondatore di una formazione centrista; Ehud Barak, laburista, ministro degli Esteri e della Difesa.
Per Amir Mizroch Israele ha sempre oscillato tra l’essere Atene e Sparta, tra l’essere nato e il vivere con le armi imbracciate, e il desiderio, a volte avveratosi, talvolta un pò meno, di essere non solo un paese normale, ma anche un faro per la cultura e le arti, un’economia avanzata e un luogo dove sia piacevole vivere. È una tensione, che avverte chiunque – come me – ha visitato più volte Israele: da un lato l’onnipresenza delle armi, delle divise, le guerre che dal 1948 sembrano non finire mai, dall’altro le università e la ricerca all’avanguardia, una vitalità culturale invidiabile, dal cinema alla letteratura, città che trasudano joie de vivre e, non ultima, un’economia avanzata ad alto tasso di innovazione, che in tempo di pace faceva invidia alle nazioni europee.
Circa il 18% del Pil del paese e il 22% delle esportazioni provengono dal settore dell’hi-tech occupando circa il 14 per cento degli israeliani. La tecnologia che ha permesso al paese di trasformarsi in una società avanzata con standard di vita paragonabili a quelli dell’Europa occidentale, è anche legata a doppio filo allo stato di guerra semipermanente. Infatti, uno dei motivi che ha permesso a Israele di avanzare a tal punto in ambito tecnologico è proprio la ricerca militare con la consapevolezza che quando ti trovi a competere con gli eserciti dei paesi vicini, come la Siria, la Giordania e l’Egitto, e con Hamas e Hezbollah, la forza dei numeri sta dalla loro parte e tu devi puntare sulla qualità, su cose come la cyber-intelligence, la robotica, i droni e le immagini satellitari. Poi, in un ecosistema dove la difesa è così importante e investe nell’innovazione, si è creato un terreno fertile per lo sviluppo della tecnologia a scopo civile.
Lo stretto rapporto dell’hi-tech con l’esercito si estende – sottolinea la Momigliano – anche alla quotidianità dei suoi lavoratori, perché spesso chi è impiegato in questo settore, per lo più maschi relativamente giovani e altamente istruiti, tende a essere arruolato in un’unità di élite o in sezioni dell’esercito dove le competenze tecnologiche sono particolarmente apprezzate, come l’intelligence militare:
Secondo il quotidiano progressista Haaretz, nel corso dell’invasione via terra di Gaza circa il 20% dei riservisti in combattimento attivo era composto da lavoratori del settore dell’hi-tech. Questo determina una situazione paradossale perché il sistema delle start-up israeliane ha un rapporto con la militarizzazione della società, essendosi sviluppato proprio grazie a essa, dall’altro subisce l’impatto negativo dell’instabilità che deriva dalle guerre. Non tutti sanno che i più alti generali e i capi dell’intelligence dello stato ebraico sono stati tra i più duri critici delle politiche di Netanyahu negli ultimi anni. Differentemente da quanto accade nella maggior parte delle democrazie occidentali, dove l’esercito in genere è considerato più falco della leadership politica, nell’Israele di Netanyahu si verifica il contrario. I motivi dei disaccordi tra Netanyahu e l’establishment della sicurezza possono scaturiscono dalla visione del mondo pessimista del primo ministro.
Netanyahu vede la potenza militare come l’unico strumento per tenere il paese al sicuro, mentre la maggior parte dei capi della sicurezza vede Israele come un paese che trae la sua forza dalle armi ma che può beneficiare anche di diplomazia e processi di pace, ove possibile. Siamo in presenza di un’inconciliabilità di due visioni strategiche: da un lato una concezione pragmatica della sicurezza, incarnata dai vertici della Tsahal che sanno, proprio perché la guerra è il loro mestiere, che non si può risolvere tutto con la forza; dall’altro la visione massimalista dei politici di destra.
Evidentemente i vertici militari non sono pacifisti. Sono consapevoli del fatto che la sopravvivenza di Israele richiede anche soluzioni politiche e compromessi, mentre una certa destra politica ha una visione messianica, che non lascia spazio alla Realpolitik. Proprio perché è così integrato nella società israeliana, l’esercito cambia con la società. Dopo la nascita dello Stato di Israele nel 1948 nella classe dirigente prevalevano un’impronta marcatamente laica, socialista e, non ultimo askenazita, e in cui dominava lo spirito dei pionieri socialisti immigrati dall’Europa orientale e dalla Russia. Fino a pochi anni la classe dirigente è rimasta in mano a un gruppo definito Ahusal, ovvero “askenaziti laici socialisti nazionalisti di vecchia guardia (intendendo vecchia guardia immigrati della prima ora, quelli giunti in Palestina prima della nascita dello Stato di Israele). Non a caso la maggioranza dei generali entrati in politica appartenevano al partito laburista.
Le società, però, si evolvono, le élite cambiano, anche perché, con il passar del tempo, la maggioranza tenuta ai margini inizia ad esprimere una nuova classe dirigente, anche dentro la Tsahal. Un cambiamento sociologico con un personale più orientato verso il nazionalismo religioso. Oggi i nazionalisti religiosi predominano nell’esercito e questo spiega i comportamenti militari di Israele e anche sulla durata del conflitto a Gaza. Tutte le guerre condotte da Israele erano relativamente brevi. E non è un mistero la diffidenza di Netanyahu espressa in passato verso i vertici militari.
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