di Alessia de Antoniis
Il suono è corpo. È forse la prima evidenza che attraversa Ritorno a casa, nella versione che Massimo Popolizio dirige e interpreta al Teatro Argentina di Roma fino al 25 maggio. Una partitura sonora dove ogni battuta vibra come uno scatto trattenuto. Pinter lo si sente. Ma non sempre lo si riconosce.
La regia si distingue per rigore ritmico, per la calibratura precisa di pause e interruzioni, per l’equilibrio geometrico delle voci che si rincorrono in un interno claustrofobico – la scenografia è di Maurizio Balò -. Popolizio restituisce con forza quella che è la cifra più spietata e insieme affascinante del testo di Harold Pinter: l’ambiguità. Un’ambiguità che non è mai vacillamento, ma strategia. Dietro ogni pausa, dietro ogni silenzio, si avverte la potenza di un universo familiare chiuso e violento, dove i rapporti sono regolati non da affetti, ma da dinamiche di potere, dominio, sopravvivenza. Popolizio cesella il tempo scenico con la lucidità del chirurgo. E tuttavia qualcosa si spezza: la crudeltà sottile, insinuante, ambigua, che da sempre rende The Homecoming un testo perturbante, qui si fa urlo, schiaffo, compiacimento. La violenza non si insinua, si espone. Il silenzio non avvelena, implode. E la scelta registica di traslare la tensione nel grottesco, nella volgarità aperta, sbilancia l’impianto pinteriano. Si ride, talvolta, ma con un senso di disturbo epidermico; è un riso che graffia la pelle più che la coscienza. Si assiste a un degrado, ma più sociale che interiore.
Nel bel mezzo di questo meccanismo inceppato, spicca il lavoro di Christian La Rosa, che costruisce un Lenny stratificato e inquietante, tra disinvoltura e veleno. La sua voce danza su corde sottili, capace di alternare minaccia e charme, tenerezza e disprezzo. Non c’è una nota forzata, non un gesto fuori linea: il personaggio vive nel sottotesto, nel non detto, e La Rosa lo abita con la precisione di un predatore che conosce la gabbia. È la sua prova a restituire, finalmente, l’ambiguità originaria: quella di un personaggio che, pur nella brutalità, lascia sempre aperta una soglia interpretativa.
Max – interpretato dallo stesso Popolizio – è patriarca ferito e manipolatore, voce roca e scorticata, logorroico, teatrale. Ma non bastano le sfumature vocali a contenerne la carica istrionica, che talvolta tracima nel compiacimento. Teddy – Eros Pascale -, l’intellettuale spento, osserva e tace con inquietante passività: la sua voce è piatta, quasi accademica, e proprio per questo inquietante. È l’intellettuale svuotato, lo studioso di filosofia che osserva il mondo come se fosse un testo da analizzare, non una realtà da abitare; che ha sostituito il desiderio con la teoria. La Ruth di Gaja Masciale, invece, cresce scena dopo scena. Non urla: vince. La sua voce prende tempo, si fa padrona del ritmo, del respiro, dello spazio. È nel non-agire che ribalta la struttura maschile: e quando decide di restare, non è solo un gesto, ma un atto di potere.
La scenografia di Balò sigilla la trappola domestica con tratti essenziali; i costumi di Marras e Sbicca costruiscono un mondo fuori tempo; il suono di Saviozzi amplifica lo stato d’assedio. Ma è un assedio che, a tratti, perde direzione. Perché se tutto vibra, non tutto colpisce.
Alla fine, lo spettacolo resta sospeso tra due tensioni: quella del testo, crudele nella sua lucida geometria di rapporti umani, e quella della messa in scena, che la contamina con una corporeità esplicita, a tratti sguaiata. La domanda resta: quanto si può deformare il meccanismo pinteriano prima che si spezzi?
Ritorno a casa di Harold Pinter
Teatro Argentina, Roma 7 / 25 maggio 2025
Traduzione di Alessandra Serra
Regia di Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio (Max), Christian La Rosa (Lenny), Gaja Masciale (Ruth), Paolo Musio (Sam), Alberto Onofrietti (Joey), Eros Pascale (Teddy)
Scene Maurizio Balò – Costumi Gianluca Sbicca e Antonio Marras – Luci Luigi Biondi – Suono Alessandro Saviozzi
Produzione Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa