Cosa tiene in vita il teatro off a Roma? Pietro Dattola, anima di Inventaria, racconta la forza del teatro off e la sua resistenza culturale
di Alessia de Antoniis
Chi ha detto che il teatro è finito? Chi lo immagina sopraffatto dagli algoritmi, ridotto a quiz su Netflix o a storytelling da feed di Instagram, non ha mai messo piede a Inventaria.
La realtà è che, mentre il teatro istituzionale rincorre bandi e bilanci, c’è chi resiste. Inventaria, appunto: un festival diffuso, autofinanziato, indipendente.
Quando? Dal 16 maggio al 10 giugno 2025.
Dove? In quattro quartieri di Roma – Ostiense, Trastevere, Piazza Navona, San Giovanni – attraversando quattro teatri – Carrozzerie n.o.t, Teatro Trastevere, Teatrosophia, TeatroBasilica.
Perché? Perché il teatro, quello vero, quello che ti parla vicino, ti batte accanto, ti costringe a immaginare, non ha bisogno di orpelli: ha bisogno di voce, corpo, urgenza. E una scena.
Inventaria, sotto la direzione artistica di Pietro Dattola e Flavia Germana de Lipsis, porta in scena 7 spettacoli in concorso, uno fuori concorso, 6 demo selezionate, 10 serate di teatro vivo, contaminato, resistente. Una rete nazionale di 36 partner su 12 regioni mette in palio 46 repliche e 28 giorni di residenza: una mappa dell’Italia che fa teatro con le unghie, ma anche con grazia.
È il teatro delle piccole sale, delle compagnie indipendenti, delle drammaturgie nuove che non finiscono in prima serata ma nel cuore, e lì restano. Un teatro che, come dice Dattola, non ha bisogno di schermi per essere digitale: è già dentro di noi, pronto a riattivarsi. A lui abbiamo chiesto non solo cosa tiene in vita Inventaria, ma soprattutto perché il teatro, quello off, indipendente, non garantito, continua a essere necessario. E irriducibile.
Cosa rende insostituibile oggi il teatro off?
Il teatro off è, per sua natura, un teatro di resistenza. Nasce nei margini. Vive e si sviluppa in spazi ridotti e quindi si adatta; lavora senza fondi pubblici, reggendosi sullo sbigliettamento, è costretto a fare i conti con la capienza limitata delle sale.
Questo lo rende, apparentemente, meno spettacolare. Meno “zucchero per gli occhi”, come direbbero gli inglesi. Ma non è una debolezza: è una scelta, o meglio, una condizione che diventa estetica. Invece di grandi scenografie, si lavora con i segni, con frammenti che alludono al tutto: un oggetto che diventa mondo, una parola che apre un abisso.
E così lo spettatore non è più solo un testimone passivo, ma diventa co-autore. È la sua immaginazione a completare ciò che vede e sente, a riempire i vuoti, a trasformare l’allusione in visione. Come quando leggi un libro e poi vedi il film: “Me lo immaginavo meglio”. Certo, perché l’immaginazione non si batte.
Un teatro che invita lo spettatore a completare il quadro usando l’immaginazione?
Esatto. È un teatro che coinvolge. Anche fisicamente: la prossimità degli spazi crea una dimensione comunitaria. Non sei uno fra diecimila in un’arena. Sei uno fra trenta, che respira insieme, il cui cuore batte all’unisono. E questa è un’esperienza rara oggi, un valore.
E con l’arrivo dell’intelligenza artificiale? Cambia qualcosa? Si rischia qualcosa?
Tutto cambia. Il teatro non è più l’unico intrattenimento. Prima c’era solo lui. Poi sono arrivate editoria, radio, tv. Ora internet, YouTube, AI. Ma proprio per questo il teatro deve trovare la sua specificità. E forse il teatro off è una nicchia poco frequentata, ma preziosa. Perché non si limita a replicare: crea. E resiste.
Inventaria è arrivato alla quindicesima edizione. Cosa vi tiene ancora in piedi?
La nostra volontà. Col tempo abbiamo cominciato a prenderci davvero sul serio, a riconoscere in quello che facciamo una missione vera e propria: promuovere il teatro off. Un teatro che troppo spesso viene considerato solo un passaggio, un trampolino verso il “teatro vero”, quello dei grandi palcoscenici, dei circuiti nazionali. Ma non è così.
Si tratta di due esperienze diverse, tanto per chi guarda quanto per chi fa teatro. Recitare davanti a una platea raccolta, con il pubblico a pochi passi, è un’altra cosa rispetto a esibirsi davanti a centinaia o migliaia di persone. Cambiano le emozioni, cambiano le dinamiche, a volte anche le competenze richieste. Non è una questione di serie A o serie B.
Sono due binari paralleli. A volte si incrociano, certo. Ma non c’è gerarchia. Uno spettacolo off può avere una forza e un impatto che non avrebbero mai lo stesso effetto su un palco istituzionale, e viceversa. Sono due linguaggi diversi, entrambi necessari. È un altro mondo, parallelo, che merita rispetto.
Mai avuto voglia di mollare?
No, mollare no. Ogni tanto c’è scoramento, certo. Perché la produzione è tanta, ma spesso senza pensiero. Gli artisti stessi sono distratti, vivono in un’epoca iperattiva. Ma è anche questo che ci spinge: dare spazio a chi ha qualcosa da dire davvero.
Roma è una città con teatri chiusi, spazi inagibili. Poi i bandi che vengono perennemente rinviati o non rinnovati. Che rapporto avete con le istituzioni?
Nessuno. Ma perché non lo cerchiamo. Non vogliamo dipendere da nessuno. Tanti festival saltano perché non ricevono fondi. Noi vogliamo evitarlo. Se chiediamo, lo facciamo perché lo decidiamo noi, non perché aspettiamo Babbo Natale.
Questa è la direzione che abbiamo scelto consapevolmente. Crediamo che le istituzioni pubbliche dovrebbero sostenere quegli spettacoli che non sono pensati per l’intrattenimento puro, che non fanno cassetta, ma che hanno un valore culturale e sociale.
Ma i finanziamenti pubblici non dovrebbero essere proprio la spina dorsale del teatro contemporaneo?
Sì, è vero. Ma noi ci assumiamo questo rischio. Abbiamo costruito una rete: chi viene scelto a Inventaria può circuitare. È il nostro contributo. E poi così abbiamo anche più libertà: portiamo in scena ciò che altrove magari non passa. E non dobbiamo dire grazie a nessuno.
Cosa manca, secondo lei, ai ragazzi che oggi si affacciano al teatro, spesso dopo anni di accademia? E cosa invece la colpisce?
Quello che ancora riesce a commuovermi è quando scorgo un punto di vista autentico, spiazzante. Ma, a essere onesti, è raro. Più spesso vedo una tendenza preoccupante all’uniformarsi al pensiero dominante, ai valori confezionati e condivisi senza interrogarsi. È come se tutti avessero capito cosa dovrebbe essere giusto e si adeguassero, senza passare per la fatica del dubbio. Non è propaganda, ma diventa ripetizione automatica di ciò che si respira nell’aria.
Autocensura? Opportunismo?
No. Semplicemente, manca pensiero critico. Si resta dalla “parte giusta” senza sentire il bisogno di scartare, di mettere in discussione.
E questa tanto evocata rinascita culturale? Esiste?
Boh. Forse in parte sì, ma c’è troppa produzione e poca qualità. I meccanismi ministeriali ti spingono a fare tanto e in fretta. Tutto è troppo veloce. Si consuma. Non si mastica.
Il problema più grande oggi nel teatro italiano?
La scrittura. Come il cinema ha problemi di sceneggiatura, il teatro ha problemi di drammaturgia. Io nasco come drammaturgo. Ci credo profondamente. Ma oggi si dice tutto, si spiega tutto. Non si lascia più immaginare. E senza immaginazione, il teatro non è nulla. È rumore.