di Alessia de Antoniis
Roberto Ciufoli torna in scena con Homo Ridens, un recital comico e antropologico che promette risate e riflessioni in egual misura. L’appuntamento è per il 17 e 18 maggio 2025 al Teatro Moderno di Latina, con tre repliche giornaliere: alle 16.00, 18.30 e 21.00. Lo spettacolo si inserisce in un contesto solidale: il ricavato sarà devoluto all’Associazione La Caramella Buona, attiva dal 1997 nel sostegno alle vittime abusi.
Lo guardo: 65 anni portati con l’eleganza e gli occhi vivi di chi osserva il mondo per comprenderlo, prima di deriderlo. Mi chiedo sempre cosa si nasconda dietro un comico. Un clown triste? Un filosofo mascherato? O semplicemente un uomo che ha capito che ridere è l’unica risposta sensata all’assurdità dell’esistenza? E ancora: un comico è necessariamente uno simpatico anche nella quotidianità? Chissà che delusione deve essere scoprire che il tuo attore, o attrice, preferito, in realtà, ha un carattere odioso. Per fortuna Roberto Ciufoli non è così: ormai sono due anni che ci incontriamo a Cortinametraggio. E lui è sempre “uno di noi”.
Porti in scena ‘Homo Ridens’. Cos’è una risata?
Spesso è una difesa, un’arma, una medicina. È anche il più potente strumento di comunicazione: quando ridiamo insieme, siamo connessi a un livello diverso.
Oggi anche far ridere è diventato complicato. Il politically correct ha messo il bavaglio anche alla comicità?
Il politically correct è devastante per la comicità. Ti mette l’accento su cose che magari non avresti neanche notato. Io smetterò di parlare male del politically correct quando qualcuno mi spiegherà cosa c’è di offensivo nella parola ‘cieco’. Perché devo dire ‘non vedente’? Abbiamo cambiato mille definizioni delle disabilità motorie, ma i marciapiedi sono rimasti senza rampe. Non è cambiato nulla nella sostanza, solo nelle parole.
Perché un bidello deve diventare ‘collaboratore scolastico’? E una discarica un’ ‘oasi ecologica’? Questo non è rispetto, è mascherare la realtà. La comicità, invece, dovrebbe smascherarla.
Da sette anni sei direttore artistico di Cortinametraggio. Come è cambiato il mondo dei corti in Italia?
Il livello si è alzato notevolmente. Prima i corti si facevano un po’ alla buona. Ora, per un buon corto, servono decine di migliaia di euro. Da 10.000 euro, se ti vogliono tutti bene e gli attori non li paghi, fino a 70.000 euro per produzioni più strutturate. Sono diventati progetti veri e propri, con case di produzione dietro.
È un bene o un male questa professionalizzazione?
È inevitabile. Ma non deve far dimenticare che è la storia, l’idea, a fare la differenza. I soldi aiutano a raccontarla meglio, ma se non hai nulla da dire, non bastano milioni di euro a rendere interessante un lavoro vuoto.
Chi ti ha formato davvero?
Ho avuto la fortuna di iniziare con l’Allegra Brigata, che ha preceduto la Premiata Ditta. Poi abbiamo lavorato con Gino Bramieri al Sistina, negli anni ’80. Facevamo riunioni di autori con Pietro Garinei, Gino Bramieri, Gino Landi, Enrico Vaime… Ho visto buttare battute perché ‘possiamo fare di meglio’, battute con le quali oggi farebbero otto edizioni di Zelig!
Il livello si è abbassato?
È cambiato il metro di giudizio. All’epoca c’era un’idea di qualità diversa. Prima di proporre uno sketch, un comico doveva studiare i maestri che lo avevano preceduto. Oggi c’è la presunzione del web: tutto ciò che è vecchio è da buttare. Non c’è più rispetto per la storia, per la tradizione.
Oggi Tognazzi e Vianello farebbero ridere?
Gli sketch di Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi sono molto più moderni di tanti comici di oggi. La loro comicità era intelligente, sottile. Non avevano bisogno di volgarità per far ridere. Oggi se non metti un riferimento a un rapporto orale in un monologo, sembri antiquato!
Daniele Formica, Walter Chiari… Quella era stand-up, magari con un linguaggio un po’ spinto, ma senza la necessità di essere volgari ad ogni costo. Quelli che oggi devono esprimersi con volgarità per chiudere un monologo… mah…
E l’intelligenza artificiale? Sostituirà anche voi comici?
Non sostituirà mai la sensibilità umana. Può aiutare, ma non ha il vissuto. La voce di un doppiatore, lo sguardo di un attore, l’incertezza in una pausa: sono umanità pura. E il teatro è questo. È vita. L’AI non sa cosa sia vivere; puoi programmare battute, ma non l’anima che ci sta dietro.
Un attore disse che a fare piangere sono buoni tutti. E a far ridere?
Spesso si pensa che per far ridere basti urlare, strabuzzare gli occhi o … È come se andassi da Riccardo Muti e gli dicessi: ‘Senti Riccardo, il Requiem me lo fai un po’ più allegro?’ Assurdo, no? Eppure nel teatro comico tutti si sentono autorizzati a fare qualsiasi cosa.
La farsa è un genere, ha dei canoni, ha una sua precisione. ‘Rumori fuori scena’ è un esempio di comicità alta. Una battuta come ‘la borsa, la borsa!’, detta con il tempo giusto, la misura giusta, il ritmo giusto, è più efficace di mille urla. Ma questo lo sai solo se hai studiato, se hai la sensibilità comica. Oggi tutti pensano di poter fare tutto.
Dell’Allegra brigata faceva parte Popolizio. Non riesco a immaginarlo comico…
Ricordo uno spettacolo con una relazione omosessuale tra Bruto e Cesare. Cesare era interpretato da Massimo Popolizio e Bruto da me. Massimo aveva dei tempi comici naturali, perfetti. E questo a conferma quello che ti dicevo prima: se Massimo si cimenta in una commedia o in qualcosa di simile, la sa fare in modo impeccabile proprio grazie a quei suoi tempi comici.
Anche Zelig, che è stato rivoluzionario, ora sembra un format esausto. Cosa sta accadendo alla comicità?
Zelig è stato prorompente all’inizio, è stato uno spartiacque. Prima c’erano varietà con scenografie, costumi, autori. Costava, certo, ma era uno spettacolo vero. Zelig ha cambiato il paradigma: avanti uno e via l’altro, scenografia unica, pochi soldi agli artisti ma visibilità.
All’inizio Zelig ha avuto una forza incredibile, con artisti come Checco Zalone o Giacobazzi. Poi piano piano il livello è sceso: su dieci comici, due che tiravano e gli altri… così così. Alla fine erano dieci su dieci che ti facevano dire ‘boh’. Non c’è più quell’energia, né produttiva né comica.
Si è persa qualità?
Si è persa visione. È come con Ikea: puoi dire che è il mobilificio della Brianza? No, è un’altra cosa. Non è meglio né peggio, è diverso. Ma se cerchi un mobile artigianale, non vai da Ikea. Ecco, oggi manca l’artigianato nella comicità.
Sei un comico. Quanto pesa questa definizione nella tua carriera?
È una gabbia, una gabbia dorata forse, ma sempre una gabbia. Hai sempre l’aspettativa di dover essere simpatico, di trovare la battuta pronta. Una volta una signora in fila alla posta mi ha guardato e mi ha detto: ‘In televisione è più simpatico’. Le ho risposto: ‘Signora, se mi vede fare lo scemo qui in fila alla posta, penserebbe che sono scemo davvero’. È un continuo…
Se guardi quanti film, quanta fiction ho fatto rispetto al resto… è pochissimo. Perché sei etichettato. Una volta il comico televisivo era marchiato a vita. Ora è un po’ meglio, ma non molto. A Cortinametraggio l’ho detto per battuta: ‘Io li conosco tutti, c’è stima reciproca, ma in quanti film mi avete visto ultimamente? Spesso non arrivo nemmeno ai provini’.
Eppure Avati ha reso meravigliosamente commovente Pozzetto in ‘Lei mi parla ancora’…
Esatto! Un ruolo drammatico eccezionale. Avati ha fatto lo stesso con Abatantuono… I comici possono passare al drammatico perché lo studiano, lo sviscerano. È cambiando il punto di vista del drammatico che si arriva al comico. Ma il contrario non succede con la stessa facilità.
In Homo Ridens misceli comicità e riflessioni più profonde…
Per mostrare che dietro una risata c’è sempre una verità, spesso scomoda. La comicità vera non è solo intrattenimento, è un modo di guardare il mondo. Come diceva Flaiano: ‘La situazione è grave ma non seria’. È proprio lì che nasce la risata più autentica.
Hai fatto ridere generazioni di italiani. Ma cosa ti fa ridere?
(Riflette a lungo…) Mi fa ridere l’assurdo. La contraddizione umana. Quell’attimo in cui capisci che tutto è allo stesso tempo tremendamente serio e irrimediabilmente comico. Tempo fa sono arrivato a Fiumicino con una colica renale. Entro in farmacia e la farmacista mi chiede un selfie. Se ci pensi è tragico, ma in quella tragicità c’è qualcosa di esilarante. Ed è lì che scatta il click. È lì che l’Homo Sapiens diventa Homo Ridens.
Per un attimo guardo Roberto e vedo l’uomo dietro il comico. Un artigiano della risata in un’epoca di comicità fast-food. Un osservatore acuto in un mondo che preferisce l’urlo alla sottigliezza. Un custode di una tradizione che rischia di scomparire.
Con “Homo Ridens”, Roberto Ciufoli porta sul palco la tecnica e il cuore, l’esperienza e l’urgenza, il bisogno di ridere e quello di capire. In equilibrio, sempre, tra la leggerezza e il pensiero. Lo spettacolo si terrà il 17 e 18 maggio al Teatro Moderno di Latina. Il ricavato sarà devoluto all’Associazione La Caramella Buona.