La “gatta” di Tennessee Williams torna sulle scene italiane 
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La “gatta” di Tennessee Williams torna sulle scene italiane 

Il nuovo allestimento di Leonardo Lidi de "La gatta sul tetto che scotta" ripropone un classico del repertorio del drammaturgo americano

La “gatta” di Tennessee Williams torna sulle scene italiane 
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

21 Maggio 2025 - 23.12


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Con La gatta sul tetto che scotta Tennessee Williams nel 1955 si aggiudicò il secondo Pulitzer, dopo Un tram chiamato Desiderio (1948). Il cinema si appropriò subito del dramma, celebre la trasposizione su grande schermo di Richard Brook (1958), con protagonisti Elizabeth Taylor e Paul Newman, film pluripremiato e candidato a sei Oscar. Opera sempreverde, è stata rappresentata nei teatri di tutto il mondo senza mai perdere fascino e presa sugli spettatori: è accaduto anche nella messa in scena di Leonardo Lidi, tornato a Williams dopo le esplorazioni cechoviane, al debutto nazionale al Teatro Carignano di Torino il 29 aprile, al Mercadante di Napoli, e alla prima romana tenutasi al Teatro Vascello il 20 maggio, dove un pubblico entusiasta ha salutato la pièce, che sarà in scena sino al 25 maggio.

Il teatro, si sa, reca in sé un istinto di rinnovo, e in questa prospettiva va inquadrata la rilettura proposta in atto unico dal regista piacentino che, con le scene curate da Nicolas Bovey, incastona il purulento garbuglio di desideri e pulsioni inconfessabili del testo in un abbacinante spazio bianco, di marmorea, cimiteriale freddezza. Un ambiente claustrofobico che anche richiama un obitorio, in cui serpeggia una verità distruttiva, percorso in lungo e largo da un grande specchio simbolicamente posto davanti ai personaggi, dietro al quale essi scelgono di nascondersi più che affrontare la propria immagine riflessa, recato dallo spettro di Skipper (Riccardo Micheletti), figura assente poiché suicida, centro nevralgico del dramma interiore di Brick, il protagonista, interpretato per sottrazione da Fausto Cabra, che assume in sé i dolenti silenzi e il non detto che affianca per contrasto i lancinanti dialoghi del dramma. La zoppia palesemente esibita, causata da un infortunio sportivo, la quasi nudità (indossa mutande e una maglietta intima) sono scoperte metafore della virilità spezzata, di una vulnerabilità che lo induce a rifiutare il mondo. Il dolore per la perdita dell’amico (dell’amato?) è appunto materializzato con la trovata scenica di Skipper che, ancor più seminudo, percorre inesorabile la scena anche recando in un disturbante andirivieni bottiglie di alcool: trauma irremovibile, segnato da sensi di colpa, con cui Brick deve convivere.

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In questo spazio prende corpo il testo, nella traduzione asciutta di Monica Capuani, che può spingersi nel turpiloquio lì dove l’originale non poté, snudando i temi che resero epocale il dramma di Williams: la fragilità del maschio, l’alcolismo come rifugio da un mondo spietato e privo di innocenza, che decreta l’omosessualità un peccato inconfessabile, la menzogna e l’ipocrisia come fondamento familiare e sociale, la maternità che si trasforma in perversa ossessione, unico ruolo concesso alla donna. Qui il teatro classico è definitivamente superato: non v’è catarsi, neanche quando la verità emerge poderosa, simbolicamente rappresentata con una detonazione, in un gioco di luci psichedeliche e di rumori lancinanti.

La prima parte dello spettacolo è incentrata sullo scontro tra coniugi, Brick e Margaret, quest’ultima non addolcita dalla struggente recitazione cinematografica di Elizabeth Taylor. Qui non siamo nella Hollywood degli anni Cinquanta, non si fanno sconti e si va alla radice: il personaggio, che metaforizza la sua precarietà identitaria, la frustrazione sessuale e l’incessante lotta in un ambiente ostile e respingente, autodefinendosi una “gatta sul tetto che scotta”, è interpretato con piglio ironico e aggressivo da Valentina Picello, che alla sua entrata tiene la scena con un monologo mozzafiato, scava nel testo di Williams, portando alla luce grovigli di finzioni e bugie, la richiesta di visibilità e di accettazione. Con lei, la madre di Brick, figura che da patetica si muta in tragica, convincentemente impersonata da Orietta Notari. Nella famiglia disfunzionale – diremmo oggi – v’è poi una terza figura femminile, la cognata Mae, che piomba sull’appetibile eredità del suocero con rapidità d’avvoltoio, a cui Giuliana Vigogna conferisce la giusta misura di ipocrisia e avidità, protervia e gelosia.

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Nella seconda parte giganteggia la figura del patriarca morente, Big Daddy, cui dà sostanza visiva Nicola Pannelli, con quel suo accento lombardo che vagamente stride con il profondo Sud statunitense in cui Williams immerse la sua pièce. Maschio dominante venuto dal nulla e fattosi da sé, nel momento della resa dei conti deve infine affrontare i fallimenti di una vita: anni sterili, gettati via ad accumulare fortune, una famiglia priva di amore, di affetti e di dialogo, covo di menzogne e ipocrisie, microcosmo specchio di un intero corpo sociale. Segnato da un cancro che si rifiuta di accettare, nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno il capotribù destinato a morte mette in scena il suo dramma personale, tra sberleffi, turpiloqui, crasse ironie e la ricerca disperata di un contatto autentico con l’adorato figlio Brick, e Pannelli dà il meglio di sé per impersonare una figura non semplice da rendere. Accanto a lui, il primogenito, il meschino e frustrato Gooper, che cela in sé un’itterica gelosia verso il fratello, favorito dal padre, ben rappresentato in questo groviglio inespresso da Giordano Agrusta. Infine, la piccola Greta Petronillo, la prima ad apparire intonando il brano “Fly to the Moon”, sempre ad origliare la catastrofe che le si svolge attorno, ad annusarne i veleni, puntello instabile di una famiglia fatta di rovine.

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Più che convincente, dunque, questo allestimento, curato nei costumi da Aurora Damanti e nel suono da Claudio Tortorici, salutato come si diceva dall’entusiasmo del pubblico, ma non esente da eccessi: la recitazione a tratti esagitata e sopra le righe; la presenza macchiettistica del reverendo (Nicolò Tommassini), forse pensata per ammorbidire la tensione; la nota farsesca del dottore che annuncia la verità della malattia, chiudendo la rappresentazione con una danza macabra; l’accentuata gestualità e l’affastellarsi di simboli rispetto ad una più misurata resa della dimensione interiore dei personaggi. Scelte drammaturgiche che tuttavia non diluiscono la forza etica, la prorompente significatività dell’opera, il devastante impatto sullo spettatore, costretto a riflettere su se stesso e ad affrontare quello specchio interiore qui pervasivamente mostrato. Del resto, è questa la liturgia del teatro, la cui inesauribile energia risiede proprio nel mescolare arditamente stili e tradizioni, riletture e sperimentazioni, in un instabile equilibrio tra innovazione e fedeltà al testo, sempre correndo il rischio di inciampare nei simboli e nelle visioni – le trappole della vita.

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