di Alessia de Antoniis
Se non avete il fisico, lasciate perdere: il press agent è maratoneta, psicologo, illusionista e, nei giorni neri, pure dog-sitter. Se pensate che sia un lavoro da red carpet, non avete idea del tasso di cinismo necessario per restare in piedi in uno dei mestieri più schizzati del panorama culturale. Per avere un’idea di cosa aspetta un aspirante press agent, addetto stampa o ufficio stampa – che vogliono dire tutti la stessa cosa – basta leggere Professione Press Agent – Manuale di sopravvivenza, il libro di Pierluigi Manzo appena uscito in libreria. 250 pagine che si leggono come un esilarante diario di guerra.
Un libro il cui sottotitolo potrebbe essere: come non impazzire cercando di restare lucidi mentre si rincorre una notizia che non c’è, si affronta una star che non collabora, varie ed eventuali. Perché, nel caso dell’ufficio stampa, davvero “stasera si recita a soggetto”.
Nel caso di Pierluigi Manzo, si comincia con un colpo di fortuna – quello che nella vita fa la differenza – o di calore estivo: lo stage da Studio Universal in un’afosa estate di fine laurea; e da lì il treno in corsa. Tre anni dopo, Manzo è già l’uomo-ponte tra il caos delle call-sheet e la liturgia delle redazioni. E se il cinema è una giungla, l’ufficio stampa è machete e zanzariera: niente si improvvisa, ma tutto si inventa.
Un esempio? La maratona di Capodanno dedicata a Lassie. Nessuna notizia, nessun evento, nessuna idea. Ma ecco la trovata: scoprire che la cagnetta eroina era, in realtà, un collie maschio col toupet per nascondere gli attributi. Titolo: “Una star che è davvero un cane”. Risultato: valanga di articoli, share prossimo allo zero, ma rassegna stampa da Oscar. È l’essenza del mestiere: vendere aria fritta. Ma fritta bene, con crosticina e storytelling.
O quella volta a Venezia: film beduino “irraccomandabile” con cast inesistente. Unica ancora: il protagonista ha dieci anni. In ventiquattr’ore lo fanno volare con tutta la famiglia; kefiah d’ordinanza, titolo pronto: “La più giovane star della Mostra”. Fotografi in delirio, distributori ancora latitanti, ma la notizia corre e il film esiste. Almeno sulla carta stampata.
E poi c’è il contrario: il giorno in cui l’Ansa non chiede conferme. L’agente di una diva agonizzante affida a Manzo la notizia del decesso. Bastano una chiamata e cinque minuti: il flash parte. Perché la reputazione, nel mondo dei media, può contare più della cartella clinica.
La lista delle mansioni del press agent è degna di un curriculum schizofrenico: da press agent a colf è un attimo. Si passa dal sistemare collant contenitivi a un’attrice prima della diretta, allo spostare mobili, all’offrire supporto psicologico a un attore pronto a farsi sbattere giù da un volo intercontinentale. In Kenya, accompagnando una star, Manzo racconta la democrazia spietata dello smartphone in mano a chiunque: tra safari e selfie, la realtà si fa reality.
Il capitolo sulla mailing list è un trattato di sopravvivenza: foglio Excel maniacale, rubrica viva, password criptata. Perché un contatto non è un nome: è una storia di fiducia reciproca. Come ricorda Arianna Finos di la Repubblica: «Non siamo solo le testate che rappresentiamo, ma professionisti».
E quando il festival ha più spine che luci? Si risponde con la diva. Susan Sarandon, per esempio, arruolata come giurata a un piccolo festival ligure: effetto-wow istantaneo. Attorno a lei si costruisce il resto: talk, partnership, accreditamenti. E se l’ospite fa i capricci? L’ufficio stampa si trasforma in concierge, baby-sitter, portaborse e muro del pianto.
I talenti, però, non vanno messi in piazza come saldi da centro commerciale. L’intervista va dosata. Troppa confidenza si traduce in zero autorevolezza. E una star sovraesposta è una star che brucia. Curare la visibilità significa, spesso, limitarla.
Lo stile di Manzo è un piacere raro. Tagliente, brillante, un po’ americano, molto romano. Gli inglesismi abbondano – “press-day”, “junket”, “backstage” – ma sempre con senso. A tratti scrive con la lucidità tagliente e il gusto per l’aforisma di Gervaso ma, con più pop, osserva, affetta, ironizza. A tratti è necessariamente didascalico, ma è un manuale, e si presenta come un testo fondamentale per chi voglia fare questo lavoro. O per chi, magari tesista in una facoltà di comunicazione, non abbia ancora capito che cosa non è diventato e potrebbe diventare.
“Professione Press Agent – Manuale di sopravvivenza” si profila come un contributo significativo e benvenuto alla letteratura sul tema. La sua forza risiede nell’approccio pragmatico, nel tono coinvolgente e nella ricchezza di esperienze dirette. Un libro che non solo insegna, ma intrattiene, rendendo la “sopravvivenza” nel mondo dei media un obiettivo raggiungibile e, a tratti, divertente. L’ambito è fortemente cinematografico-televisivo: la musica, il teatro, l’arte performativa, terreno meno frequentato, restano in angolo. Il libro affronta la misurazione dell’efficacia tramite l’AVE (Advertising Value Equivalent), ma resta ancorato a una visione tradizionale: manca un’analisi strutturata del ROI in chiave moderna, con metriche digitali, KPI e valutazioni economiche sistemiche. Ma il libro non è un’enciclopedia. È un backstage, non una lezione in aula. E come tale funziona.
Un pregio? La difesa di una regola etica (ormai una rarità) in mezzo alla polvere del glamour: mai barare, mai mentire al giornalista, mai vendere il proprio nome in cambio di un selfie.
Perché leggerlo? Perché nessuno, finora, aveva messo nero su bianco il mestiere dell’addetto stampa con tanta lucidità e tanto disincanto. Perché chi fa comunicazione culturale può finalmente ritrovare se stesso in una narrazione che non lo deride né lo idealizza. Perché tra un toupet su Lassie, un viaggio in aereo con la Deneuve e un attacco di panico a bordo pista, ci passa tutto: il talento, la fatica, la dignità di chi lavora dietro le quinte per produrre visibilità.
E alla fine, sotto la patina di sarcasmo e fatica, resta un messaggio: si può raccontare la realtà senza violentarla. Si può renderla notizia, ma senza tradirla. Basta sapere che il vero capitale, in questo mestiere, non è solo il contatto. È la reputazione. Tutto il resto è toupet.