di Alessia de Antoniis
È come l’eco di una bomba. Non quella dell’ultima strage, ma l’eco lunga, dolorosa e sorda che ti resta dentro, sotto pelle, dopo che i vetri si sono frantumati e le sirene si sono spente. Autoritratto, il nuovo lavoro di Davide Enia in scena al Teatro India fino al 1 giugno, non è teatro civile, non è narrazione, non è autobiografia. È tutto questo, ma fuso, liquefatto, interiorizzato, restituito come un pugno nello stomaco.
Ma come si cresce in una città in guerra?
Enia non interpreta, infetta. Racconta Palermo da dentro. La sua Palermo. Quella dei morti ammazzati visti da bambino, della paura che ti insegna a camminare senza incrociare sguardi, delle regole non scritte per sopravvivere in una città in guerra.
“La mafia è il regno dei discorsi incompiuti”. “Per combattere una bestia, serve una bestia. Anche noi siamo bestie”. Nel buio totale del Teatro India, un quadrato di luce. Una sedia. Davide Enia. E il suono antico, struggente, battente, dei cunti siciliani che Giulio Barocchieri suona dal vivo, come una colonna vertebrale sonora che accompagna e lacera.
È una lingua arcaica quella di Autoritratto, una lingua che ci appartiene; quella dell’odore dell’asfalto saltato a Capaci, della carne sciolta nell’acido, del silenzio di chi ha visto e non può più dire. In una terra dove ’a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, Enia forza il linguaggio oltre il limite del dicibile.
E allora sì, aveva ragione Falcone quando diceva che per comprendere davvero la mafia non basta studiarla: bisogna parlarne la lingua, riconoscerne i codici, essere cresciuti nei luoghi dove il potere si insinua nei silenzi e nelle abitudini. Un magistrato venuto da Milano può indagare, ma non capisce. Capire la mafia non è un esercizio teorico: è capire il linguaggio del potere, le sue pause, i suoi sguardi, il modo in cui ti attraversa anche quando ne prendi le distanze.
Enia racconta e si racconta. Ma più che un autoritratto, è una radiografia della paura. Il testo si snoda come un flusso nervoso, dove la cronaca si intreccia alla memoria, il trauma al sorriso, la famiglia alla violenza.
Costruisce un manuale per restare vivi a Palermo, fatto di regole amare e micidiali: non parlare mai con nessuno quando senti che qualcosa non va: penseranno che sei pazzo; non fidanzarti con chi ha la famiglia collusa, perché non sposi solo lei ma tutta la sua famiglia; prega, anche se non sai per chi: per te, per l’altro. Tanto prima o poi serve.
Non vola una mosca al Teatro India. La sala è ipnotizzata, congelata in un’attesa che è quasi panico. Si ride, a tratti. Si applaude fuori scena. Ma poi Enia colpisce di nuovo. Con la storia di Peppe Malato, bambino chiuso nell’armadio dopo aver visto il sangue sul marciapiede. Con il racconto del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito, segregato sotto terra per 778 giorni, ucciso e sciolto nell’acido per punire il padre collaboratore di giustizia. Con i ricordi del 23 maggio ’92, quando una montagna nera di fumo esplose in cielo.
E tu non sei più spettatore: sei dentro. Dentro le mura della tua città. Dentro un corpo che sa di non essere al sicuro. Dentro l’Italia che ha lasciato sola Palermo, e poi l’ha trasformata in fiction. In una Sicilia che parla sì una lingua sconosciuta, ma che, quella sì, è cosa nostra: di tutti noi.
Enia non racconta nulla che non sia già stato detto. Lo ammette, lo rivendica. I nomi sono noti: Riina, Brusca, Lima, Puglisi, Falcone, Borsellino. Le storie anche. Ma in Autoritratto c’è la risignificazione di quel dolore, la sua rielaborazione in carne viva. È teatro che si fa corpo, che lacera.
Enia ti guarda e ti porta dentro la sua generazione. Quella che ha visto la mafia da vicino, che ha giocato con i figli di Borsellino, che ha avuto Pino Puglisi come professore di religione. Quella che è cresciuta con la nevrosi come condizione esistenziale, perché “a Palermo ti senti in pericolo anche quando sei felice”.
Autoritratto è senza dubbio uno degli spettacoli più potenti, necessari e profondi dell’anno. Un capolavoro del presente che non ha effetti speciali, non ha video proiezioni, non ha scenografie: ha la verità. E una voce. Quella di Davide Enia, che è corpo, parola, respiro, carne, suono, sangue e pensiero. Un attore-autore che si prende tutto il rischio della vulnerabilità e lo trasforma in arte.
Non è un monologo. È un gesto politico. È un atto di coraggio. Uno di quelli che ti lascia addosso il sale, la polvere, l’odore della morte e della resistenza. Uno di quelli che, finito lo spettacolo, ti fa uscire in silenzio. Ti spinge a guardare Roma con altri occhi. A ricordare che anche quella, quella Palermo lì, è Italia.
Ma il punto non è solo denunciare. È riconoscere la mafia che ci attraversa, quella che respiriamo senza accorgercene. E se dopo Autoritratto non ti viene voglia di cambiare qualcosa, non ti viene voglia di dire basta, di ribellarti non alla mafia stereotipata, ma a quella che si nasconde nella nostra quotidianità, che ha infettato i codici etici di chi comanda, da Bolzano a Trapani, allora forse sei già morto: dentro.
Teatro India
20 maggio – 1 giugno 2025
Autoritratto
di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri
scene e luci Paolo Casati
suono Francesco Vitaliti
durata 90 minuti