Vannuccini porta Contrattempo dalle periferie al Teatro Vascello
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Vannuccini porta Contrattempo dalle periferie al Teatro Vascello

Il 4 giugno 2025 al Vascello, Contrattempo di Vannuccini dà voce al teatro nato tra le crepe del mondo: Corviale, Vigne Nuove, Medio Oriente

Contrattempo di Riccardo Vannuccini - intervista di Alessia de Antoniis
Contrattempo di Riccardo Vannuccini
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27 Maggio 2025 - 10.51


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di Alessia de Antoniis

Dalle periferie romane ai riflettori del Teatro Vascello, Contrattempo è più di uno spettacolo: è una mappa emotiva, un gesto teatrale fatto di presenze, assenze, inciampi e resistenze. Un diario scenico nato dalle strade di Corviale e Vigne Nuove, luoghi-simbolo di una città ai margini, che qui diventano linguaggio e teatro.

Il 4 giugno, al Vascello, sarà una serata unica. Poi, Contrattempo tornerà nei suoi territori d’origine: il 12 giugno a Corviale, il 20 a Vigne Nuove. Come un cerchio che si chiude.

Con Riccardo Vannuccini abbiamo parlato di teatro e città, di memoria e di poesia. Più che un’intervista, un viaggio. Ci siamo entrati in punta di piedi e siamo usciti diversi.

Lavoro da anni a Corviale e Vigne Nuove – racconta Riccardo Vannuccini – con il teatro, il teatrodanza, con azioni urbane e artistiche. Abbiamo scelto di infilarci nel tempo delle persone: mentre tornano a casa, mentre aspettano un autobus, mentre stanno al bar. A volte le precediamo, a volte le accompagniamo, con piccole azioni sceniche, musicali, poetiche.

Cerchiamo di creare una pausa nel tempo veloce, quello economico. Fermarlo. Generare una riflessione sul “tempo perso”, che poi perso non è. La filosofia in danza è importante anche dal punto di vista spirituale: si dice che l’opera più importante del Creatore sia stata quando si è fermato.

Come reagiscono le persone?

Alcuni con stupore, altri con meraviglia, qualcuno con fastidio. Ma come diceva un coreografo: danzare è un po’ inciampare nelle buche. Il contrattempo crea proprio questo: un inciampo, una sospensione, una possibilità. Noi non improvvisiamo a caso. Lavoriamo dentro progetti, dentro luoghi. E dentro le persone.

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Per me, l’essere umano è un essere artistico. Sta al mondo grazie alla sua capacità espressiva. Ma oggi, nel tempo della protesi tecnologica, dei cellulari, queste capacità si sono abbassate. Noi proviamo a farle riaffiorare. Anche con un’azione di danza in una piazza, dove magari dei bambini, che non hanno mai visto uno spettacolo, entrano in scena. E partecipano, si divertono. E il divertimento è una forma altissima di conoscenza.

Lei lavora in luoghi non convenzionali. Cosa significa?

Ho lavorato in tanti luoghi non convenzionali. Carceri, centri d’accoglienza, zone di guerra. Con le vittime di tortura, in Iran, Palestina, Giordania, Libano. Perché penso che l’arte vada protetta e rilanciata come forma originaria dell’essere umano.

Ricordo in Giordania, in un campo profughi: i bambini chiedevano l’elemosina ai semafori, le donne trasportavano taniche d’acqua, gli uomini fumavano. Proponemmo uno scambio: che fossero gli uomini ad andare a prendere l’acqua, e le donne e i bambini a fare teatrodanza. All’inizio si divertirono, poi capirono il “gioco”. Ma il teatro serve a questo: a toccare i nodi dell’esistenza. Dalla morte, il sapere di dover morire, ai grandi passaggi della storia.

Il teatro da sempre si occupa delle grandi fasi dell’esistenza umana. L’essere umano è l’unico essere vivente che sa di dover morire, e proprio per questo ha costruito delle scene teatrali: per capire, per sostenere, per abitare questa consapevolezza.

E il teatrodanza funziona dove il linguaggio logico non arriva. Nei centri psichiatrici, ad esempio, dove spesso c’è solo la parola medica. Con la danza si crea contatto. Rinascita.

Come fate? Come si fa a portare poesia dove c’è tortura, ferite, menefreghismo?

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Non so. Ci proviamo. A volte va bene, a volte meno. Ma le esistenze contano tutte. Anche quelle che non si vedono.

Una volta mi chiesero: ma a chi parli? A 5 persone? A 50? Sono niente rispetto ai numeri dei social. Sì, a pochi. Ma se una madre e un padre salvano anche solo un figlio, hanno salvato un universo. Noi lavoriamo così, per contagio. Come diceva Artaud: illuminare una pietra sola, che poi ne illuminerà un’altra.

C’è stato un episodio in Giordania, in un altro campo. Fummo cacciati perché la ONG con cui eravamo non voleva che pagassimo per stare lì. Poi ci richiamarono. Abbiamo poi scoperto che una rivolta dei bambini contro gli adulti li aveva costretti a richiamarci. Così siamo tornati a lavorare in questo campo.

In seguito ci dissero che bambine e donne non potevano partecipare. Su questo punto, abbiamo trovato un compromesso: avrebbe partecipato una sola bambina, ma loro non la volevano “perché era scema”. In realtà, questa bambina, scalza, denutrita e sporca come tutti gli altri, non era affatto “scema”. Era diventata sorda a causa di una bomba, perciò non sentiva ciò che le veniva detto. Era una bambina profuga siriana. Si presentò il primo giorno con l’abito delle feste siriane. Sembrava una principessa. Era lenta, certo, ma bellissima. Il teatro aveva già fatto il suo.

Contrattempo nasce da tutto questo. Dai nostri appunti, dalle fotografie, dai video. È un collage di memorie vissute. Semplice. Ispirato a Pina Bausch. Sedie in scena, pochi oggetti. Perché una sedia può essere tutto: una barca, un satellite, la luna. Basta riattivare l’immaginazione. Non affidarla al telefono.

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Lo spettacolo non ha una storia lineare. Come diceva Bausch, “non parla di niente”. È come guardare un tramonto: non è che spiega qualcosa, ma ti abita. E se vuoi, ti racconta.

Com’è cambiato il teatro da quando ha cominciato?

Ho debuttato nel marzo 1978. Quella sera interruppi la replica: avevano rapito Aldo Moro.

Ho visto gli spettacoli di Grotowski, Kantor, Carmelo Bene. Ho studiato con Dario Fo. Sono stato fortunato. Ho vissuto quel teatro. Poi tutto è cambiato. Sono entrato in un carcere femminile. Poi le vittime di tortura. Il mondo si è spostato. Ma il senso del gioco, quello è rimasto. Oggi sono un ex giovanotto fortunato. Faccio quello che amo. È il mio lavoro. La mia vita.

Certo, a volte il dolore è tanto. A un certo punto feci 14 laboratori in un anno con vittime di tortura. Smisi di dormire. Andai da un medico. Non ero preparato. Ma ho avuto allieve e allievi straordinari. Oggi sono loro che portano avanti il lavoro.

Io mi sento solo un po’ affaticato dal dolore altrui. Ma ancora fortunato. Vivere un’esistenza dove passione, arte e vita coincidono, non è da tutti.

Pensa di riuscire a rientrare a breve nei luoghi occupati, devastati dalla guerra?

Il progetto non si ferma al Teatro Vascello. Tornerà a Corviale il 12 giugno e a Vigne Nuove il 20. Ma anche oltre: stiamo cercando di capire come portarlo a Gaza, dove siamo in contatto con un gruppo teatrale locale. Siamo stati anche in Tunisia, in Libano. Ma ora è difficile. Speriamo di tornarci.

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