di Alessia de Antoniis
“Una felicità cristallina. Che quasi spaventa”. Luca Argentero si presenta così, sorridente, alla seconda edizione di ON AIR – il Festival dedicato a Serie TV e Cinema, che fino al 1° giugno accende Palermo con talk, incontri e dibattiti sui temi dell’audiovisivo e dell’impegno sociale. Una cornice spettacolare – Palazzo dei Normanni, la più antica residenza reale d’Europa – e un pubblico partecipe, accolgono l’attore torinese, primo ospite d’eccezione insieme a Vittoria Puccini, per un confronto senza filtri sulla sua carriera e sulle sue molte vite: da giovane aspirante tennista a volto amatissimo della fiction italiana, passando per la scrittura e l’impegno civile.
Argentero sceglie la strada dell’intimità. Niente frasi fatte né celebrazioni. A chi gli chiede “In che fase sei della vita?”, risponde senza esitazione: “In una fase bellissima. All’apice di una felicità che mi fa quasi paura, da quanto è cristallina. Ho una moglie meravigliosa, due bambini fantastici, lavoro con continuità su progetti che amo. E lo dico con gratitudine: non è scontato”.
Non è la prima volta che Luca mette piede nel capoluogo siciliano. Palermo, racconta, “l’ho conosciuta davvero durante le riprese della Baronessa di Carini, quasi vent’anni fa. Vittoria era la baronessa, io ero un ragazzo sbarbato e inesperto. Abbiamo vissuto la città, non da turisti, ma da ospiti. Ricordo le passeggiate alla Vucciria, i profumi, la gente. Mi è rimasta nel cuore”.
Un piccolo atto di campanilismo accompagna la sua narrazione: “Metà della mia famiglia è siciliana, di un paesino vicino a Catania. L’altra metà è romana. E poi c’è Torino, dove sono nato. Insomma, sono un bel miscuglio di radici”.
Ricorda il suo primo incontro con l’arte?
Sto ancora cercando di capire se il mio lavoro rientra in pieno nella definizione di arte. In alcune occasioni ci si avvicina, ma non sempre. Le prime esperienze, come Carabinieri, per esempio, forse non le definirei “arte” in senso stretto, ma hanno avuto un impatto. Se l’arte è una dolce compagna di vita, allora sì: molte cose che ho fatto si avvicinano a quel tipo di funzione.
Luca Argentero da piccolo non voleva fare l’attore…
Da ragazzino volevo fare lo sportivo, magari il tennista. Ma soprattutto sapevo bene cosa non volevo: una vita monotona, una giacca e cravatta, un ufficio, una routine. Mi terrorizzava l’idea di fare ogni giorno le stesse cose, con le stesse persone. Non avevo un piano preciso, ma mi sono lasciato aperte tutte le possibilità. E la vita, come spesso accade, è quello che ti succede mentre fai altri progetti.
Mentre da adolescente voleva solo essere visto…
Sì, dalle ragazze sicuramente! Anche se non ci riuscivo. C’è stato quell’estate magica, tra i 15 e i 16 anni, in cui torni a scuola a settembre e sei cresciuto di quindici centimetri, ti sono spuntati muscoli, capelli… improvvisamente ti notano. Prima no. Ma in generale non cercavo la visibilità, non ero il giullare della classe né il leader. Facevo parte del gruppo, ero benvoluto, ma non un riferimento.
Una qualità che si riconosce è l’empatia…
Credo che per fare l’attore serva soprattutto saper ascoltare. Essere empatici non è solo utile, è fondamentale. Siamo costantemente in relazione con altre persone: colleghi, registi, il pubblico. Se sei un muro, non puoi trasmettere nulla. Io ho sempre avuto a cuore il benessere di chi mi sta vicino. Non l’ho scelto come metodo, è un modo di essere.
E sul rischio di “montarsi la testa”, taglia corto con l’ironia…
Se fosse successo, i miei amici torinesi o mia moglie me l’avrebbero fatto notare subito. Ho mantenuto sempre i piedi per terra. I progetti che scelgo sono pensati per la nostra vita familiare, per restare uniti il più possibile. Non ho mai fatto questo mestiere per l’ego, ma perché lo sentivo mio. E continuo così.
L’ubriacatura della popolarità l’ho evitata. Se doveva succedere, sarebbe già successo. Ho 47 anni. Certo, ho beneficiato della visibilità, ma non me ne sono mai nutrito.
Un effetto del successo è essere sempre riconosciuto per strada…
A volte pesa, ma è anche il segnale che il mio lavoro funziona. Se nessuno mi riconoscesse, vorrebbe dire che qualcosa non va. Ricevo affetto, questo è certo. Doc ha aumentato moltissimo questo sentimento: prima e dopo la serie è cambiato tutto. Ma è sempre un affetto garbato, mai invasivo. Finché è così, mi fa piacere.
Poi c’è sempre questa strana cosa per cui per la gente l’attore diventa il personaggio che amano in tv…
Con Doc succede spesso. C’è chi mi chiede consigli medici, anche se scherzando. Le nonne, soprattutto, hanno un affetto infinito. È una serie che ha coinvolto tutte le generazioni. E sì, in qualche caso persona e personaggio si fondono, ma lo prendo come un segno di empatia.
A 47 anni si può fare un primo bilancio della nostra vita…
Ho la sensazione di aver fatto tutto quello che desideravo fare. Ma questo mestiere non ha un traguardo. Non è come nel calcio, dove vinci il Mondiale e hai chiuso il cerchio. Qui puoi giocare all’infinito, ma è sempre più difficile trovare progetti che ti accendano. Quest’anno, per fortuna, ho ritrovato stimoli. Anche grazie alla scrittura.
Ho scritto un romanzo. Il protagonista, Fabio Resti, non sono io. È ispirato a un amico. Ma molti, leggendo, ci appiccicano la mia faccia. Mia madre ha patito la lettura, mi ha detto: “Non me l’aspettavo”. Ma è proprio questo il punto: non sto raccontando me stesso, sto creando un personaggio. E mi piace molto.
Dal palco di ON AIR arriva anche un piccolo affondo…
ABelve non ci andrò mai. Potete segnarlo: non sarò mai regista e non andrò mai a Belve. Mettiamoci l’anima in pace. E poi… le vere belvate non si raccontano. Se non l’ho detto in 47 anni, non lo dico oggi.
Argentero si lascia andare a una riflessione sulla vulnerabilità, forse la parola più significativa dell’incontro…
Da quando sono padre la mia vita è cambiata tantissimo. Oggi ho più paure. Ho smesso di fumare. Voglio proteggermi per proteggere loro. Prima ero un giovane scapestrato in giro per il mondo, oggi sento una responsabilità diversa. La vulnerabilità, oggi, è più presente. Ma non la vedo come un limite, anzi: è una spinta a vivere meglio, con più consapevolezza.
Una dichiarazione che si lega al cuore tematico di ON AIR – un festival che mette al centro temi come inclusione, giustizia sociale, sostenibilità, equità di genere – e che nasce da un’idea di Simona Gobbi, in sinergia con la Fondazione Federico II e il supporto del presidente Gaetano Galvagno. La manifestazione culminerà nella consegna del “Premio Marlù per il Sociale”, dedicato agli artisti che si sono distinti per il loro impegno civile attraverso l’arte.