Questo disco, From Cuba to Harlem, The other roots of jazz interpretato dal pianista italiano Marco Fumo (Odrarek Records, 2025) ha già incontrato un favore critico straordinario. Enrico Merlin, uno storico del jazz di grande valore lo ha definito addirittura una “stele di Rosetta “delle origini del jazz. Le righe che seguono non vogliono quindi aggiungere o togliere niente a quanto affermato da autentici esperti. Sono, più che altro, il racconto di come un ascoltatore non professionale, come chi scrive, ha vissuto questo lungo e avventuroso viaggio proposto dal pianista abruzzese, con la guida preziosa delle note di copertina di Stefano Zenni, altro luminare italiano della storia della musica afro americana.
Si è dibattuto a lungo sulle origini del jazz, addirittura su chi lo abbia inventato. Domanda vana, dal momento Il jazz è infatti un fiume ampio che raccoglie affluenti numerosi e variegati. Il disco di Marco Fumo parte da certa musica da salotto che si suonava nella Cuba di fine ottocento. Un repertorio pianistico che assorbiva tuttavia le influenze delle feste, dei carnevali, della musica e delle danze di strada dell’Isola, dove vivevano e si mescolavano tradizioni afro americane portate dagli schiavi, echi di musiche colte e popolari europee; non a caso, nota Stefano Zenni nella seconda traccia, Souvenir de Lima, scritta dallo statunitense Louis Moreau Gottsschalk , (grande viaggiatore che però non conosceva la città peruviana), si avverte l’eco delle Mazurke di Chopin. E’come se il pianoforte sintetizzasse il canto e il tamburo riplasmandoli in una forma romantica ”scrive ancora Stefano Zenni. E a queste acque bevevano compositori brasiliani di choros, come Ernesto Nazareth o il celeberrimo Scott Joplin nei suoi ragtime. E a New Orleans Jelly Roll Morton colorava il blues del Delta del Mississippi, nato dal fango e dal dolore, con pennellate di Spanish Tinge, ovvero di musiche che venivano diffuse nel Nord America dalle navi commerciali che arrivavano da Cuba e dai paesi ispanofoni. E a Chicago prima e a New York poi, il blues cambiava ancora pelle e si arricchiva di nuovi influissi e stregava immigrati ebrei-russi come George Gershwin.
D’altronde la musica popolare di quel periodo storico era basata tutta sulla mescolanza, sull’incontro di voci diverse. Il fado portoghese nasce in realtà da una musica afro brasiliana, il tango argentino e lo choro brasiliano assorbono come spugne varie esperienze africane ed europee. O Sole Mio è, a tutti gli effetti, un’habanera. Eduardo di Capua la scrisse, particolare curioso a Odessa, un altro grande porto.
La musica, come la vita reale, non si ingabbia in confini, in schemi rigidi. Il sovranismo e la purezza culturale sono ideologie, non approcci storici alla realtà.
Marco Fumo racconta nel suo disco uno dei tanti percorsi americani di questo continuo incrociarsi di lingue, culture e tradizioni. E lo racconta in maniera molto piacevole suonando una musica ricca di sonorità classica, coinvolgente dalla prima all’ultima traccia.
Peccato che sia, come dichiara nel libretto, il suo ultimo disco. Un buon motivo per riascoltare quelli precedenti dedicati a questa musica meticcia e, cito ancora Zenni, “gloriosamente bella”.