Per vent’anni, dopo il mio sequestro e la tragica liberazione, sono stata perseguitata dalle accuse di essere stata la causa della morte di Calipari e di essermela andata a cercare. Ho sempre risposto che non sono stata io a sparare a Calipari, sono stati gli americani. E a proposito dell’essermela andata a cercare, «se stavo a casa a fare la calza non mi sarebbe successo» come aveva scritto Enzo Biagi, ho sempre sostenuto che andare a cercare le notizie e a verificarle era semplicemente il lavoro di giornalista. Questa, peraltro, è un’accusa che viene rivolta solo alle giornaliste donne che tornano vive dopo una drammatica esperienza, se invece tornano in una bara avranno sicuramente fatto uno scoop. Mentre i giornalisti maschi se cadono in una trappola sono sempre eroi. Come se tra lo scoop o il turismo in luoghi di guerra non vi fosse spazio per un giornalismo di qualità. Evidentemente il giornalismo di guerra è ancora un mestiere per maschi.
Dopo vent’anni però – sollecitata anche da interviste per l’anniversario, l’uscita del film «il Nibbio» oltre che da uno spettacolo teatrale sempre sul caso Calipari – sono arrivata alla conclusione che «la sindrome del sopravvissuto», secondo le perizie psichiatriche, non basta a rappresentare i pesanti sensi di colpa. Non sono stata io a sparare, però per salvarmi – due volte: dai rapitori e dai soldati americani – è morta una persona speciale come Nicola Calipari.
Ripercorrendo i miei viaggi in territori difficili, sconvolti dalle guerre, ricordando i modi spesso rocamboleschi per raggiugerli sicuramente ho corso dei rischi. Per questo sono arrivata alla conclusione che sì «me la sono andata a cercare», non tanto in Iraq, ma in Somalia, Afghanistan, Kurdistan, Eritrea, etc. I pericoli maggiori erano lungo la strada per arrivare su un campo di guerra, ma senza correre dei rischi non avrei mai potuto raccontare quello che succedeva in quei paesi. Naturalmente ho sempre cercato di valutare attentamente i rischi e i modi per evitarli o ridurli, anche perché non considero il mio mestiere una missione e non ho mai avuto la vocazione del martirio. Per questo ho scritto il mio ultimo libro dal titolo «Me la sono andata a cercare», dove ricostruisco le sfide affrontate per arrivare a Mogadiscio, piuttosto che a Kabul o a Baghdad, oppure a inseguire i kurdi sempre in fuga e minacciati a turno dai paesi che li ospitano. Ho ripercorso i miei viaggi in Algeria, soprattutto durante il «decennio nero» del terrorismo islamico.
Il racconto più difficile però è stato quello della Somalia, dove ero stata diverse volte, a partire dall’intervento occidentale di Enduring freedom (che ha lasciato i somali senza speranza). Non potevo parlare delle mie esperienze in Somalia trascurando l’inchiesta che avevo fatto sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, subito dopo la loro morte. Per una questione di coerenza e onestà, anche se mi attirerò le critiche di chi ha sempre seguito l’unica tesi dello scoop sul traffico di armi e dei rifiuti senza mai indagare sull’operato dei militari italiani e il risentimento dei somali sulle violenze subite. Naturalmente non penso di avere la verità in tasca e tanto meno di avere fatta una «inchiesta» esauriente, nel parlarne sono stata confortata dal dossier pubblicato da AfricaExpress, il giornale online diretto da Massimo Alberizzi (amico di Ilaria e conoscitore dell’Africa e in particolare della Somalia). Da quel dossier ha ripreso le testimonianze di colleghi molto seri e conoscitori di quella realtà. Si tratta di testimonianze raccolte anche dalla Commissione parlamentare di inchiesta su Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ma rimaste lettera morta. Perché?
Attraverso i viaggi che racconto, iniziati alla fine degli anni Ottanta, si può seguire anche l’evoluzione del mestiere di giornalista sui campi di guerra fino ad arrivare al giornalismo embedded. Non ho invece seguito, sul campo, gli ultimi sviluppi della guerra ibrida in Ucraina, dove paradossalmente il giornalismo è diventato parte della logistica militare. Non ho invece riportato i miei viaggi, difficili, in Palestina perché sarebbero completamente inadeguati rispetto alla situazione attuale. Il genocidio in corso non ha eguali nella storia, anche di guerre atroci. Anche il prezzo pagato dai giornalisti palestinesi non ha eguali. Gli unici in grado di raccontare la distruzione e gli orrori della striscia di Gaza e colpiti dall’esercito israeliano che non vuole testimoni per i crimini di guerra, né stranieri né locali. A Gaza sta morendo il dovere di informare e il diritto ad essere informati.