di Antonio Salvati
In un mondo lacerato dalle guerre, che si divide e si chiude, dove i confini sono trincee e non cerniere, c’è bisogno – sostiene il card. Matteo Zuppi – di persone che sperano e fanno sperare, di operatori dell’informazione e della comunicazione che non alimentino odio e pregiudizi, ma che siano riflesso della bellezza dell’amore di Dio. Non è da ingenui pensare di poter cambiare questa società con le parole. Per «risanare le ferite della nostra umanità» – sostenne Papa Francesco nel Messaggio per la 59ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Condividete con mitezza la speranza che sta nei vostri cuori 2025 – occorre parlare e scrivere con mitezza, contrapponendo la gentilezza e la pacatezza alle urla da stadio e al sensazionalismo debordante, raccontando la verità senza mai calpestare la dignità umana, mettendo al centro gli ultimi e gli scartati. Perché «la tradizione dell’umile speranza è tra le mani dei poveri». Non è una missione impossibile, ma una sfida da raccogliere, un compito a cui non sottrarsi, un’opportunità da non perdere, un imperativo morale da non mettere a tacere.
Ne sono convinti i diversi autori – giornalisti, studiosi, educatori, poeti (tra i quali Riccardo Battocchio, Stefania Careddu, Gino Cecchettin, Antonio Cuciniello, Colum Mc Cann, Arnoldo Mosca Mondadori, Gabriele Nissim, Fabio Pasqualetti, Alessandro Rosina, Paolo Ruffini, Nello Scavo) – del volume curato da Vincenzo Corrado e Stefano Pasta, Condividete con mitezza la speranza (Scholé 2025 pp. 256, € 20,00), impreziosito da una prefazione di Zuppi, che commentano il Messaggio di Papa Francesco per la 59ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali.
La contemporaneità è caratterizzata da una corsa continua, da un moto perpetuo, che – affermano Corrado e Pasta – «apparentemente sembra favorire condivisione e unione, ma in realtà provoca individualismo e isolamento». Si è più “connessi”, ma sempre più isolati. Il Messaggio di Papa Francesco ha uno sguardo rivolto al Giubileo sulla Speranza. Dal Giubileo del 2000 a oggi, nel contesto comunicativo lo scenario è completamente mutato. Quello attuale è, infatti, il primo Anno Santo che si svolge nell’epoca del digitale, con tutto ciò che questo comporta nelle relazioni e nelle deviazioni tecnologiche. Ecco, secondo i curatori del volume, la contraddizione del pellegrinaggio per questo tempo, che conferma la realtà: non siamo soli! Il pellegrinaggio è un atto collettivo, non individuale, in quanto appuntamento popolare atteso e partecipato da milioni di fedeli verso un orizzonte condiviso. Del resto, diceva Francesco, «la speranza è sempre un progetto comunitario». In questo senso, gli operatori dei media sono chiamati a sostenere questo messaggio di speranza ricomponendo il “noi” e rimettendo la fraternità al centro come Francesco ha scritto nell’enciclica Fratelli tutti, perché solo il “noi” ha il senso del futuro. L’alternativa è un mondo frammentato centrato sull’“io”, favorito anche da una comunicazione senza comunità, un tempo della solitudine e del lungo presente, in cui scarse sono le visioni. L’anelito al progetto comunitario, e dunque di speranza, del Giubileo può essere una risposta a quello che scriveva un giovane Karol Wojtyla nel 1952 in una poesia: «Io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione». E concludeva: «Se soffre per mancanza di visione, deve allora aprirsi la strada fra i segni».
Il filo rosso della speranza è quello che corre nel Messaggio per la 59ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. «È bello trovare – afferma il Papa – […] semi di speranza e farli conoscere. Aiuta il mondo ad essere un po’ meno sordo al grido degli ultimi, un po’ meno indifferente, un po’ meno chiuso. Sappiate sempre scovare le scintille di bene che ci permettono di sperare. Questa comunicazione può aiutare a tessere la comunione, a farci sentire meno soli, a riscoprire l’importanza del camminare insieme». Parole che evocano Charles Péguy secondo il quale «la Speranza vede quel che non è ancora e che sarà. Ama quel che non è ancora e che sarà. Nel futuro del tempo e dell’eternità».
I saggi raccolti nel volume sono caratterizzati da una chiara consapevolezza: la responsabilità di una sana comunicazione non riguarda solo i professionisti della comunicazione, ma anche tutti i cittadini in un tempo che, con l’affermarsi del web sociale, è caratterizzato dalla coautorialità degli “spettautori” (spettatori e autori al tempo stesso) nella produzione e fruizione di flussi comunicativi e sociali. Infatti, spesso la comunicazione e l’informazione si contraddicono e, anziché creare comunione o formare, alzano muri, fomentano l’odio, vendono illusioni e timori, accarezzano reazioni istintive, a volte addirittura le generano colpevolmente. È tempo invece di offrire ragioni per sperare, «anche quando – scriveva Papa Francesco – «è difficile, anche quando costa, anche quando sembra non portare frutto».
Per «disarmare la comunicazione», come chiede papa Francesco nel suo Messaggio occorre – avverte Milena Santerini – forse «partire dalla coscienza che essa è un’arma potente, capace di muovere gli animi e i cuori al bene, ma anche alla violenza e all’ostilità». Tutto comunica e trasmette significato: il nostro corpo, la parola, i messaggi culturali. L’enorme crescita dei mass media, la diffusione globale della Rete, l’importanza della pubblicità e dell’informazione digitale caratterizzano il nostro tempo, tanto da far pensare di essere in un tempo di “populismo comunicativo”. Si aggiungono – aggiunge Santerini – «i fenomeni di disintermediazione che caratterizzano la Rete, per cui tutti possono raggiungere direttamente, senza la mediazione di altri, un numero potenzialmente infinito di ascoltatori. Comunicare diventa un imperativo quasi fine a sé stesso, indipendentemente dal tipo di messaggio che si vuole veicolare». In un certo senso, l’ipertrofia della comunicazione è il perfetto specchio del narcisismo sociale: “esprimi te stesso” diventa un obbligo per esistere agli occhi degli altri, a prescindere da cosa si vuole dire. Un immenso intreccio di comunicazioni globali attraversa il mondo, dalle radio/Tv a Internet, dalle grandi catene dell’entertainment ai social network. Uno degli effetti più evidenti «è, quindi, un brusio globale continuo di sottofondo, un flusso ininterrotto di messaggi, musica, informazioni, commenti, narrazioni». Il risultato è un eccesso di comunicazione, «con la moltiplicazione dei soggetti che intendono essere presenti sulla scena, e soprattutto con il rischio continuo di una frammentazione della sfera pubblica».
L’aspetto più problematico di tali trasformazioni che la comunicazione ha subìto, soprattutto a causa dei supporti digitali, è il rischio della dissociazione operata tra il soggetto comunicatore del messaggio e chi lo riceve. Infatti, la comunicazione, come ci spiegano i linguisti, non è solo decodifica “neutrale” di messaggi inviati da un soggetto a un altro, ma sono espressioni che hanno senso solo in determinati contesti, e in base alle intenzioni di chi le produce e di chi le ascolta.
L’interpretazione, dunque, pur salvando la realtà dei fatti, è insita nella pratica di comunicazione stessa. La comunicazione online e in generale quella rapida e “anonima” del digitale rischiano invece di prescindere dall’intenzione dell’agente, dalla contestualizzazione dell’espressione prodotta e dalla interpretazione del senso del messaggio. siamo nell’epoca di un invasivo storytelling.
L’umanità, da Omero in poi, ha sempre coltivato l’arte del racconto; tuttavia, è solo negli ultimi decenni che l’industria del la comunicazione ha applicato lo storytelling ai campi più diversi: la politica, il marketing, il management… Si sfrutta così la propensione tipicamente umana a percepire e comprendere la realtà in forma di racconto. Tuttavia, la narrazione da sola non basta. Senza l’argomentazione e l’interpretazione non riesce a creare nelle persone una vera competenza riflessiva, dando senso e valore all’esperienza per arrivare a una piena comprensione. Sollecitare emozioni fini a sé stesse, senza una comprensione più profonda del significato che le storie assumono, e senza inserirle nel contesto di una relazione, rischia di creare uno svuotamento di significati. La comunicazione rischia di cadere, come scrive papa Francesco, nel protagonismo e nell’autoreferenzialità, creando illusioni, paure e aggressività anziché speranza, apertura e amicizia. I media possono allontanarci gli uni dagli altri «sottraendo simpatia o, al contrario, farci entrare nel mondo dell’alterità anche quando ci pare estranea, o quando implica sofferenza. L’empatia che la comunicazione può suscitare (o, al contrario, reprimere) emerge come una delle capacità umane più profonde e potenzialmente costruttive». Il riconoscimento delle emozioni altrui che definiamo empatia permette di divenire sensibili e quindi più esperti nelle relazioni umane, nella comprensione e nell’interpretazione aperta dell’altro. “Buona” comunicazione sarà – secondo Santerini – allora quella che rende «familiare il non familiare, ma sempre con un sovrappiù di senso. L’empatia incarna la dimensione del “sentire con” che permette una condivisione e una comprensione dell’altro, la partecipazione alle emozioni altrui, una risposta agli stati affettivi dell’altro e comunque, più in generale, assume un significato di condivisione». Perché si sviluppi, è necessario il riconoscimento profondo delle reazioni dell’altro, l’associazione con esperienze precedenti, la capacità di sintonia con le emozioni altrui, nella dimensione della speranza. “Sentire” l’altro/a fonda nuovi sentimenti più autentici, come l’amore, l’amicizia, il rispetto, la cura.
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