Dalla reclusione alla cura: salute mentale, Basaglia e il potere salvifico delle parole e dei libri

Nel libro Cento giorni che non torno, Valentina Furlanetto racconta Basaglia e Rosa, denunciando manicomi, abusi psichiatrici e l’urgenza di cure più umane.

Dalla reclusione alla cura: salute mentale, Basaglia e il potere salvifico delle parole e dei libri
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8 Giugno 2025 - 23.41


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di Antonio Salvati

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Secondo il più recente Rapporto Salute Mentale pubblicato dal Ministero della Salute emerge che l’accesso ai servizi di salute mentale ha registrato un aumento, con una domanda concentrata soprattutto sul trattamento di ansia e depressione. Secondo il World Mental Health Day Report condotto da Ipsos (2024), circa il 40% delle donne della Generazione Z ha dichiarato di sentirsi spesso depressa, mentre il 54% dei giovani di questa fascia di età ha riferito di aver vissuto episodi di stress tali da non poter svolgere attività quotidiane, come andare al lavoro o a scuola. Le cause principali di questo disagio sembrano essere principalmente legate a fattori esterni come il lavoro, la pressione sociale e scolastica, ma anche l’incertezza economica e le difficoltà relazionali. Nel 2024, oltre 16 milioni di italiani hanno lamentato disturbi psicologici di media e grave entità, con un incremento del 6% rispetto al 2022. Negli ultimi decenni è cresciuta la consapevolezza della salute mentale come tema di rilevanza sociale. Tuttavia, restano gravi carenze nei servizi di assistenza, con un numero insufficiente di psicologi e risorse dedicate al settore.

Franco Basaglia ebbe a dire che «la follia è una condizione umana. La follia esiste ed è presente in noi come la ragione. Il problema è che la società, per definirsi civile, dovrebbe accettare sia la ragione che la follia». A Basaglia – di cui l’anno scorso abbiamo ricordato i cento anni della sua nascita – associamo la legge del 1978 che porta il suo nome, nota come quella che ha chiuso i manicomi. Bene ha fatto Valentina Furlanetto che con il suo libro Cento giorni che non torno. Storie di pazzia, di ribellione e di libertà (Laterza, Roma – Bari pp. 288 € 20 €) è tornata sulla straordinaria figura di Franco Basaglia che non è solo un nome nella storia della psichiatria, ma un simbolo di rivoluzione e umanità. Con le sue idee e azioni, ha catalizzato un cambiamento epocale nel trattamento dei disturbi mentali. La Furlanetto mette la storia di Basaglia in parallelo con quella di Rosa che trascorse la vita entrando ed uscendo dai manicomi: “prima quelli di mattoni” e poi “quelli chimici”. Rosa e Franco erano coetanei, nati entrambe nel 1924 e praticamente gravitarono negli stessi contesti. «Lei come paziente dei manicomi e lui come direttore e poi distruttore degli stessi. Ne ho fatto un articolo che ora ho deciso di raccontare. Due storie, una piccola, sconosciuta, l’altra enorme, che conosciamo tutti». La Legge 180 – direbbe Peppe Dell’Acqua e psichiatra e allievo di Basaglia – ha creato nuove possibilità. Ha fatto uscire le persone con disturbi mentali da una condizione di “destino inevitabile”, dalla visione del «malato come pericoloso, inguaribile e incomprensibile». Ha restituito alle persone la possibilità di cura. La riforma della Legge 180 ha riconosciuto il diritto alla salute mentale, sia per chi è malato, sia per la società, «una cura che non si basa sull’isolamento, ma sull’integrazione e sull’accompagnamento». Propose un approccio alla salute mentale che guarda al futuro. Permangono problemi reali, è vero, gli operatori stessi ne sono ampiamente consapevoli, ma la soluzione non è ritornare alle certezze devastanti della psichiatria. Oggi si parla di cura, la persona va accolta nella sua totalità, con il delirio, le allucinazioni o con l’incapacità di controllare le sue emozioni. Occorre mettere in campo strumenti e percorsi che ci sono, che conosciamo perfettamente e che conoscono accademici, psichiatri, operatori sanitari e amministratori. La Legge richiedeva un profondo cambiamento culturale e un impegno delle università per rivedere come si insegnano e si applicano le strategie terapeutiche, la presa in carico nel territorio, un capovolgimento in cui conta la persona, il cittadino, l’individuo e il contesto, non la malattia. Non tutti hanno fatto questo passo, molti hanno osteggiato la Legge, forse perché riduceva il ruolo centralizzato e assoluto dello psichiatra nel percorso di cura, facendo spazio a un approccio più collaborativo. Non è solo una questione di ego, ma anche di affari, poiché le università e i privati hanno interessi economici nella gestione della salute mentale. Tuttavia, tanta strada è stata percorsa. Soprattutto se pensiamo ai motivi per i quali si finiva in manicomio prima della 180. La Furlanetto racconta di ciò che accadeva ad Aversa e a Treviso. Nelle cartelle cliniche delle donne rinchiuse nel manicomio tra il 1850 e il 1950 la definizione generica più utilizzata dal medico nel giustificare il ricovero era «perché pericolosa per sé e per gli altri” e «ci stava dentro di tutto: testardaggine, adulterio, eccesso di passione, gelosia, idee politiche inusuali, disubbidienza al padre o al marito». Erano potenzialmente destinate al manicomio le donne aggressive, discinte, che rifiutavano il cibo, che tradivano, che bestemmiavano, che respingevano l’idea di diventare madri. «Spesso la richiesta di internamento veniva fatta dal marito o dai fratelli, ma poteva essere avanzata anche dai sindaci, dai vicini e dai parroci. Come a Treviso, nelle cartelle cliniche di Aversa i motivi del ricovero venivano sempre forniti da altri, mai dalla donna stessa, la cui voce non esisteva o era soffocata». Quando il punto di vista della paziente veniva raccolto dal medico, quest’ultimo lo giudicava. Talvolta l’opinione delle donne internate si ritrova nelle lettere, ma anche qui spesso le missive venivano censurate o non venivano neppure spedite, a insindacabile giudizio del direttore del manicomio. Tra i motivi di internamento potevano esserci sintomi patologici (convulsioni, autolesionismo, tentato suicidio), ma anche ragioni di carattere etico e morale. Una donna poteva essere portata in manicomio se “incompatibile con la vita di famiglia”, per “instabilità di carattere” o “erotomania” o “eccessi di pianto”. Una pratica della reclusione, vera e propria, che ha avuto anche una funzione di controllo sociale. Il manicomio non solo isolava la “matta”, ma salvava l’onore della famiglia. Venivano spesso internate figlie o mogli ribelli all’autorità familiare, donne il cui onore era compromesso, lo era stato o poteva esserlo, donne “cadute di fresco, ma non esposte al pubblico”, “quelle che sono in pericolo prossimo di cadere”, “pericolanti”, “pentite”, ma anche vedove o orfane che non avevano una famiglia che le accudisse. Donne e ragazze ribelli, quindi.

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Vi è poi tutto il consistente capitolo degli psicofarmaci che hanno certamente avuto il merito di aver aiutato gli psichiatri e i pazienti. E – come direbbe Dell’Acqua – la rivoluzione di Basaglia e la legge 180, senza la chimica non ci sarebbero state.

L’introduzione degli psicofarmaci nella pratica clinica ha cambiato il destino dei malati mentali, la medicina e la società stessa; la teoria degli squilibri chimici (la serotonina, la dopamina, ecc.) ha tuttavia avuto successo presso gli psichiatri perché finalmente li accreditava al pari degli altri medici, avendo ora anch’essi pillole e farmaci da usare, come l’internista aveva l’antibiotico. Capire meglio l’utilità e l’efficacia degli psicofarmaci è molto importante anche perché queste pillole hanno controindicazioni rilevanti nei pazienti. Quando questi sintomi insorgono di solito vengono trattati con altri farmaci, mettendo il paziente in un circolo vizioso senza fine. Per capire come vanno le cose basta considerare – spiega la Furlanetto – quanto pesano nei bilanci delle case farmaceutiche le entrate derivate dalla vendita di psicofarmaci: negli anni Duemila gli psicofarmaci hanno rappresentato la maggior fonte di entrate per le aziende farmaceutiche, superando i 900 miliardi di dollari, metà dei quali negli Usa e un quarto nel nostro continente. Nel 2021 l’istituto privato di ricerca Eurispes ha dedicato alla salute mentale una parte del suo rapporto annuale sui comportamenti degli italiani, dal quale emerge che su 49 milioni di confezioni di psicofarmaci consumate in Italia in un anno solo 565 mila arrivavano al paziente da ospedali o da servizi di salute mentale. Il resto, la stragrande maggioranza, erano tutte pillole che sono state prescritte in farmacia su prescrizione medica non di uno psichiatra, come sarebbe logico, ma di medici di base o altri specialisti. Tuttavia se i farmaci servono, serve anche la parola. I farmaci se usati da soli impediscono di vedere la persona che si ha davanti. Una persona con i suoi legami, i suoi traumi, la sua famiglia o assenza di famiglia, amore o assenza di amore, problemi sul lavoro o assenza di lavoro, licenziamenti, delusioni, lutti, incubi, fantasmi. Insomma, i farmaci consentono di intervenire sul singolo, come se non esistesse la società, come se non esistesse il contesto, i suoi ricordi, i suoi traumi, le relazioni, ma individui che hanno solo bisogno di aggiustarsi i condimenti del cervello. Per questo Piero Cipriano ha coniato la felice espressione “manicomio chimico”, che rende bene l’idea di una gabbia di molecole che ha preso il posto degli istituti nel controllare socialmente la malattia mentale.

Torniamo a Basaglia che vuole riportare al centro la persona e trattare il “pazzo” come un essere umano. Allora, invece di limitarsi a dirglielo, ricorda la Furlanetto, fa una cosa banale, semplice, scontata, ma rivoluzionaria: gli restituisce il comodino. Quella di Basaglia «è la rivoluzione dei comodini, oggetti comuni che tutti diamo per scontati, lì dove ciascuno di noi ripone le proprie cose: una fotografia, un quaderno, un libro, una lettera, un fiore secco, un anello, un fazzoletto, un biglietto segreto. Significa restituire ai malati la propria storia». Tratto rivoluzionario non secondario. In molte RSA agli ospiti non è consentito di conservare effetti personali molto importanti come le foto. Rosa amava leggere e chissà «se si è rigirata nella testa le storie che conosceva, le poesie imparate a scuola, i romanzi che aveva amato, i libri che aveva letto alle figlie, come la storia di Shahrazad, la bella e coraggiosa protagonista delle Mille e una notte, che grazie al potere delle parole incanta e intrattiene il re persiano Shahriyar. Sappiamo come andrà a finire: Shahrazad escogita un trucco per salvarsi dalla misoginia del re, raccontandogli ogni sera una storia e rimandando il finale al giorno dopo. Anche Rosa si salva la vita attraverso le storie. «Non esiste un vascello veloce come un libro/ – scriveva Emily Dickinson – per portarci in terre lontane, né corsieri come una pagina/ di poesie che si impenna – questa traversata/ può farla anche il povero/ senza oppressione di pedaggio –/ tanto è frugale/ il carro dell’anima». Rosa non aveva avuto un’istruzione, era una donna semplice, cresciuta in povertà, abituata ai lavori pratici, ma era assetata di letture, di storie. Leggeva per soddisfare questa sete, leggeva forsennatamente, le cose più diverse, quelle che trovava, per scampare – almeno con la testa – a quelle quattro mura. «Sono cento giorni che non torno», ripeteva Rosa, che soltanto con il pensiero e grazie ai libri poteva andare altrove.

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Sono considerazioni – queste sulla lettura – che condivido pienamente e mi permetto di rinviare al mio volume La compagnia dei libri (Jaka Book, 2022, pp. 245, € 25,00; prefazione di Andrea Riccardi) in cui ho cercato di trasmettere i benefici e la bellezza della letteratura. Non è elegante autocitarsi. Tra le diverse cose scrivevo: «non troverete ampie spiegazioni, tecniche, consigli, strumenti, schede di lavoro, sull’importa della lettura o sulla letteratura in generale. Troverete alcune considerazioni – supportate da un amore profondo per la letteratura – frutto della mia esperienza di lettore e di insegnante, finalizzate a dimostrare la funzione salvifica della letteratura. Per dimensione salvifica intendo semplicemente l’opportunità che l’esperienza letteraria ci offre di essere persone migliori. E soprattutto saggi». Nel libro mi sono soffermato sul valore della lettura nelle carceri. In carcere, il libro e veramente l’unica evasione possibile. Molti hanno sottolineato la valenza trattamentale dell’iniziativa delle biblioteche in carcere che offre non solo l’opportunità di utilizzare al meglio il tempo della detenzione, ma di valorizzare e rendere effettiva l’attività della lettura che per la maggior parte dei detenuti era un’esperienza sconosciuta. Ho conosciuto detenuti divenuti dipendenti della lettura. In questo senso hanno vissuto l’etimo del verbo leggere che – come ci ricorda la Treccani – è “raccogliere, un’azione diversa da quella di accumulare. Raccogliere implica un vagliare attento, una selezione accurata di quello che si mette insieme. Per estensione, quindi, leggere significa scegliere, avere cognizione di causa, essere consapevoli. Potremmo dire possiede un altro verbo: accogliere. Raccogliere presso di sé. Fare proprio.

Oggi in ambito psichiatrico ci sono tante cose che potrebbero essere fatte meglio, le leggi insieme ai servizi potrebbero funzionare di più, i fondi potrebbero essere più cospicui e meglio indirizzati. Molti passi avanti sono stati fatti. Eppure sostiene l’autrice «convivono pratiche illuminate e residui arcaici, ma le prime stanno sostituendo un po’ alla volta i secondi. Basaglia ha dimostrato che se anche una persona soltanto inizia a cambiare le cose, queste possono essere cambiate». Oggi quelle persone che come Rosa «soffrivano – perché sottoposte a terapie umilianti e inutili, relegate negli istituti a contare i giorni lontano da casa, rinchiuse quando erano malate ma anche quando disturbavano i “sani”, private del diritto di votare, additate e obbligate a nascondersi, persone a cui è stato fatto del male – possono contare su diritti e servizi, non perfetti, non ottimi, non adeguati, ma comunque più avanzati rispetto al passato». «Il pettirosso prova le sue ali./ Non conosce la via,/ ma si mette in viaggio verso una primavera/ di cui ha udito parlare», scriveva Emily Dickinson. Sono parole che parlano a ciascuno di noi, ma anche di tutte le persone che non ci sono più. Come Basaglia, che avremmo tutti voluto conoscere. E come Rosa, nonna della Furlanetto.

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