Il 13 giugno 1981 con Alfredino iniziò la "tv del dolore", oggi quella per i bambini di Gaza non fa audience
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Il 13 giugno 1981 con Alfredino iniziò la "tv del dolore", oggi quella per i bambini di Gaza non fa audience

Un sentimento capace di scuotere l’animo nazionale, si è diluito e sterilizzato in un sottofondo continuo tra un reality e una fiction. Un bambino palestinese morto compare in un reel, tra un influencer e una pubblicità e non c’è più spazio per l’empatia collettiva

Il 13 giugno 1981 con Alfredino iniziò la "tv del dolore", oggi quella per i bambini di Gaza non fa audience
La mamma di Alfredino Rampi
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13 Giugno 2025 - 22.19 Culture


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di Marcello Cecconi

Quel giorno, il 13 giugno 1981, l’Italia trattenne il respiro. Era incollata agli schermi della Rai per seguire in diretta l’agonia di un bambino di sei anni caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, alle porte di Roma. Il piccolo Alfredo Rampi, detto Alfredino, morì dopo tre giorni di tentativi drammatici, inutili, sotto gli occhi di milioni di italiani. Era la prima volta che la sofferenza entrava nelle case con quella brutalità, senza filtri, senza pudore. Nasceva la TV del dolore”.

Un’ossessione di massa con 21 milioni di spettatori davanti allo schermo a tubi catodici, convalidata dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini accorso sul luogo della tragedia. I conduttori in studio avevano gli occhi umidi. Alfredino divenne il primo martire mediatico dell’Italia moderna. Quel dolore, condiviso, unì il Paese in un unico “battito animale” che, come ci insegna Battiato, è la parte istintiva non consapevole di ognuno di noi. 

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Oggi, 13 giugno 2025, di fronte alla morte quotidiana di centinaia, migliaia di bambini nei conflitti, nei naufragi, nelle tragedie umanitarie come quelle che avvengono a Gaza, ci accorgiamo di quanto quella sofferenza non ci colpisca più con la stessa violenza emotiva. Non buca più lo schermo, non ferma più l’ora di cena. E di conseguenza non entra nei palinsesti.

Ecco che oggi, la tv del dolore, un tempo capace di scuotere l’animo nazionale, si è diluita e sterilizzata in un sottofondo continuo tra un reality e una fiction. Non fa più audience, se non condita di narrazioni che vanno oltre la semplice cronaca o se integrata in format già codificati: pianti in diretta, funerali spettacolari, memorie montate con musica malinconica.

Ma la tragedia vera, quella che puzza di guerra e di sangue, quella che mostra i corpi di bambini coperti di polvere a Gaza o a Rafah, quella non fa share. Si passa oltre perché il consumo di immagini è frammentato, fugace, inghiottito dai social e dall’infotainment. Un bambino palestinese morto compare in un reel, tra un influencer e una pubblicità e non c’è più spazio per l’empatia collettiva che non ha più tempo per la bolla di attenzione che rese Alfredino un simbolo.

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Non è solo cambiata la tv, dunque, ma è cambiato chi la guarda. La tragedia umana, se non è confezionata bene, non buca più e la soglia del dolore collettivo si è alzata. Un pubblico, dunque, che ha effettuato una mutazione silenziosa, quasi come se il sovraccarico emotivo di questi ultimi decenni, tra disastri naturali, guerre e pandemia, lo avesse anestetizzato. Insomma, la semplice cronaca di una morte non è evento, ma rumore di fondo e non importa nemmeno se la morte è quella degli innocenti.

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