Fare teatro oltre lo sguardo al Campania Teatro Festival
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Fare teatro oltre lo sguardo al Campania Teatro Festival

Con "Fare teatro oltre lo sguardo", spettacolo corale e politico, Raffaele Parisi porta al CTF un teatro che denuncia, include e ribalta

Fare teatro oltre lo sguardo - Campania Teatro Festival - intervista a Raffaele Parisi - di Alessia de Antoniis
Fare teatro oltre lo sguardo - Raffaele Parisi e Murìcena Teatro - Campania Teatro Festival
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

20 Giugno 2025 - 19.27


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di Alessia de Antoniis

Nel mondo cieco dello spettacolo, cieco non per mancanza di vista, ma per miopia culturale, c’è chi prova a sovvertire la gerarchia dello sguardo. Chi immagina un palcoscenico non per integrare, ma per ripensare radicalmente l’idea stessa di visibilità, narrazione, presenza. Con Fare teatro oltre lo sguardo, in scena al CTF il 20 giugno al teatro Colosimo di Napoli, il regista e pedagogo teatrale Raffaele Parisi, con Murìcena Teatro, porta a compimento un progetto di anni: un laboratorio nato nel 2018 e dedicato a persone non vedenti e ipovedenti, oggi diventato spettacolo corale, politico, necessario.

Nessuna retorica dell’inclusione, nessuna scorciatoia emotiva: Fare teatro oltre lo sguardo è un atto di teatro come costruzione di cittadinanza, un viaggio dentro e contro la cecità di chi vede ma non guarda. Ma cosa significa davvero “Fare teatro oltre lo sguardo”?

Siamo partiti da una ricerca sui sogni delle persone non vedenti – ha raccontato Raffaele – Non sogni notturni, ma desideri, ambizioni, immaginazioni. Ne è nato un processo drammaturgico e poetico che ha dato vita al personaggio di Rosaria, una sposa che il giorno delle nozze decide di fuggire. Ha perso la vista e la sicurezza. Comincia un viaggio dentro una città che non è pronta ad accoglierla, che non è costruita per lei. È un romanzo di formazione teatrale, un percorso alla ricerca di consapevolezza e autonomia. Alla fine del viaggio, Rosaria guarda il mondo con un altro sguardo. Un nuovo sguardo. Il proprio.

Come si traduce tutto questo sulla scena, in termini concreti?

La protagonista dello spettacolo è Rosaria, una ragazza che all’inizio del laboratorio scoppiava in lacrime appena saliva su un palco. Oggi è la protagonista. Ma soprattutto, oggi Rosaria, insieme ad altri attori non vedenti del gruppo, gestisce un B&B nel centro di Napoli. Questo significa teatro. Non un passatempo, ma un dispositivo di emancipazione. Un lavoro sul corpo, sulla voce, sulla memoria. Hanno imparato a muoversi nello spazio scenico, a imparare i testi a memoria senza leggerli, a relazionarsi con gli altri. Hanno imparato che potevano farlo. E questo ha cambiato tutto.

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Il progetto esiste da tempo, ma oggi arriva al Campania Teatro Festival. Che percorso ha fatto?

Il laboratorio è attivo dal 2018. Negli ultimi anni, grazie alla collaborazione con la Scuola Elementare del Teatro diretta da Davide Iodice e con il sostegno della Fondazione Campania dei Festival, il nostro lavoro si è consolidato. Abbiamo ricevuto un supporto sia artistico che produttivo. Ma la cosa più importante è stata la possibilità di condividere questo percorso in un contesto come il CTF, dove la parola comunità non è solo uno slogan. Questo per noi è un atto politico: costruire uno spettacolo che non è “per” persone ipovedenti, ma “con” loro.

Nel comunicato stampa si parla di accessibilità. Che strumenti avete messo in campo?

Utilizziamo audiodescrizioni live. Una voce recitante accompagna le scene non parlate, per permettere anche a chi non vede di seguire tutto ciò che accade in scena. Le persone non vedenti indossano cuffie wireless e possono così vivere lo spettacolo in modo completo, senza lacune narrative. Ma l’accessibilità non è solo questo. È anche lavorare con le attrici e gli attori su un linguaggio del corpo che diventi condiviso, riconoscibile, narrativo. È un lavoro lento, quotidiano, profondo.

Come reagisce il pubblico, sia vedente che non vedente?

Con una forte emozione. Non pietà, emozione vera. Si crea un filo invisibile, un’empatia profonda. Il nostro secondo titolo, che accompagna il progetto, è proprio “Invisibile”. Perché c’è qualcosa che unisce chi è in scena e chi guarda o ascolta. E quando senti il pubblico trattenere il fiato, quando percepisci i battiti accelerati, capisci che il teatro è ancora uno spazio possibile. Che qualcosa è passato. Che siamo ancora umani.

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Come vi rapportate al rischio di spettacolarizzazione della disabilità?

È un tema delicato. Se c’è una cosa che rifiutiamo è proprio quella pietas, quella narrazione caritatevole. Non c’è nulla da compatire, e anzi, la parola “normalità” andrebbe abolita. Esistono solo unicità. Non parliamo di disabilità, parliamo di abilità diverse. Un attore cieco che si muove al buio su un palco, suona, recita, interagisce… non è un “povero ragazzo che ce la fa lo stesso”. È un professionista, punto. Noi lavoriamo per cancellare la goffaggine, l’imbarazzo, quel senso di “oddio cosa devo dire” che spesso prende chi vede. A teatro, quel tipo di imbarazzo dev’essere trasformato in ascolto. E se possibile, in pensiero.

Lo spettacolo è anche una denuncia esplicita alla cecità del sistema urbano…

C’è una scena in cui Rosaria attraversa la città. Cammina tra strade sbagliate, marciapiedi che finiscono nel vuoto, strisce pedonali o piste tattili interrotte. Ecco, quella scena è teatro, ma è anche cronaca. E denuncia. Il nostro Paese non è ancora pronto; e spesso chi dovrebbe progettare lo spazio pubblico non ha idea di cosa significhi vivere una disabilità. Abbiamo visto persone parcheggiare sulle strisce per non vedenti. Abbiamo visto città costruite senza pensarci minimamente. E allora il teatro può dire qualcosa anche su questo.

È arte politica?

Assolutamente sì. Questo è un lavoro politico. Fare teatro oggi, con queste persone, significa prendere posizione. Significa dire che la cultura è un diritto, che l’espressione è un diritto. Non stiamo facendo intrattenimento. Stiamo cambiando qualcosa, un centimetro alla volta. Forse pochi se ne accorgono, ma il teatro serve. Non è una parentesi. È una possibilità.

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La nostra intelligenza ha bisogno di essere nutrita dall’arte e dalla bellezza, altrimenti diventiamo vuoti, diventiamo delle macchine automatiche che svolgono un lavoro, dormono, mangiano, svolgono un lavoro, dormono, mangiano. Noi combattiamo, portando avanti la nostra piccola rivoluzione. Mai come ora dobbiamo prendere posizione, dobbiamo scegliere da che parte stare.

Come si sostiene un progetto simile in un momento in cui i fondi alla cultura e alla disabilità vengono ridotti?

È stata molto dura, soprattutto all’inizio. Arrivano anche quei momenti di sconforto: non vale la pena, non ce la faccio da solo, ho bisogno di aiuto. Poi succede una magia, non riesci ad abbandonare, quindi ti ribelli e lavori duramente per cercare anche i canali di finanziamento.

Abbiamo ricevuto un piccolo finanziamento dalla Banca di Credito Popolare. La Fondazione Campania dei Festival ci sostiene economicamente, dandoci un contributo per questo lavoro. Però sono tutti finanziamenti che abbiamo trovato noi. L’accesso ai finanziamenti pubblici è difficile per il teatro istituzionale, figuriamoci per il teatro che cerca di abbattere un muro e vuole lavorare nel sociale.

Siamo una piccola compagnia che riesce ad assumere 20 persone per un po’ di tempo, pochi giorni. È un traguardo per noi, è uno step che abbiamo raggiunto.

Che tipo di sostegni avete trovato sul territorio?

Abbiamo il supporto del Monastero delle 33 e il Club Inner Wheel di Napoli. Ci hanno messo a disposizione gli spazi e questo è stato un regalo enorme per noi. Si è creato un nucleo che ha attratto altre particelle, si è creato un atomo, si è creata una cellula di bellezza. Mi piace definirla così perché ci sono tante realtà che ruotano intorno al nostro progetto e mi sento veramente supportato.

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