Portami là fuori... al Campania Teatro Festival

“Portami là fuori” al Campania Teatro Festival: rap, carcere e riscatto. I ragazzi degli IPM in scena con Lucariello il 20 giugno

Portami là fuori - Campania Teatro Festival - Lucariello - intervista di Alessia de Antoniis
Lucariello - Portami là fuori - Campania Teatro Festival
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

20 Giugno 2025 - 18.47


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di Alessia de Antoniis

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Il 20 giugno, nel Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale a Napoli, va in scena “Portami là fuori”, un concerto teatrale che fonde rap, teatro e vite reali: sul palco i ragazzi detenuti negli IPM (Istituti Penali per Minorenni) di Airola e Nisida si esibiranno accanto a musicisti e formatori professionisti. Non è uno spettacolo sul carcere, ma un atto politico. Nasce dal presidio culturale permanente attivo da tredici anni in sette istituti penali per minorenni italiani, coordinato dall’associazione CCO – Crisi Come Opportunità. A guidarlo è Luca Caiazzo – in arte Lucariello – che da tredici anni coltiva, attraverso il rap, un linguaggio di resistenza e trasformazione all’interno delle carceri minorili, insieme a Enzo Musto (Oyoshe), Shada San e Federico Di Napoli. Una comunità che si forma nei luoghi della privazione e diventa spazio d’arte e di restituzione.

Quando abbiamo iniziato, 13 anni fa, il rap non era ancora il linguaggio dominante dei ragazzi – racconta Lucariello a poche ore dal debutto al Campania Teatro Festival – Oggi è un suono che li rappresenta. E questo ci aiuta: il nostro è un laboratorio continuativo di scrittura e registrazione, con studi costruiti dentro gli IPM. I ragazzi entrano, vedono come lavoriamo, si avvicinano, poi cominciamo a scrivere e registrare. È uno dei laboratori più seguiti.

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Portami là fuori… dove? E a far cosa? Può davvero l’arte portare fuori?

Sì, anche solo per un tempo limitato. Il laboratorio crea alternative, la possibilità di sentirsi altrove. Per molti ragazzi che non hanno mai avuto sogni, o li hanno avuti legati solo a oggetti, status, avere invece un sogno che ti porta a fare fatica, a risparmiare per registrare, significa costruire un’altra identità. E questo è già moltissimo.

Non credo alla redenzione come favola. Ma la musica può accendere qualcosa: la rabbia, la consapevolezza, l’autocritica. Quando un ragazzo scrive un testo violento, e poi lo riascolta, può giudicarlo, capirlo. È un passaggio psicologico potente. Noi non promettiamo dischi d’oro, ma un linguaggio per dare forma a quello che non è stato mai nominato. E questo è un processo trasformativo.

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Cosa rappresenta per i ragazzi salire su un palco fuori dal carcere?

È un passaggio forte. Un ragazzo una volta mi disse: “Poco prima di salire sul palco, mi sento come se stessi andando a fare una rapina.” Gli risposi: “sì, ma senza far male a nessuno”. Il palco per loro è un luogo di adrenalina, riconoscimento, possibilità. E noi lavoriamo perché lì sopra siano visti come artisti, non come detenuti. Nessuno dovrà capire chi viene dall’IPM e chi no. L’obiettivo è che la scena sia omogenea.

Quali sono i risultati concreti dopo 13 anni di attività?

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È difficile tirare fuori dati numerici, ma quello che posso dire è che dal punto di vista del trattamento i ragazzi quando stanno con noi hanno una risposta migliore. Molti vengono da marginalità profonde. Non sono stati visti dalla famiglia, né dalla società. A volte hanno cercato attenzione attraverso gesti violenti. La cosa su cui lavoriamo di più è costruire una motivazione nei ragazzi. Non vendiamo illusioni di successo, ma cerchiamo di coltivare la passione verso la musica. Per adolescenti che spesso non hanno un sogno, coltivare una passione che resiste anche fuori è un gesto rivoluzionario.

In che modo il vostro progetto si relaziona con le narrazioni mediatiche, come quella di Mare Fuori?

Mare Fuori ha aperto uno spiraglio, ma ha raccontato una realtà falsata. In Italia le ragazze non stanno con i ragazzi negli IPM. Nella fiction sembra un liceo dove nascono storie d’amore. Ma il carcere non è fiction. È chiuso, faticoso, duro. È reale. Noi non cerchiamo la spettacolarizzazione. Non portiamo i detenuti in scena. Portiamo degli artisti. È diverso.

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E il rischio di trasformare il dolore in merce? Lo sentite?

Sì, e lo evitiamo proprio scegliendo l’arte come campo di verità, non di esibizione. Il nostro obiettivo è che non si distinguano i ragazzi dell’IPM dai professionisti. Non ci sarà chi suona prima e chi dopo, ma un momento di scambio totale. Per noi loro sono degli artisti al 100% quando stanno sul palco.

La situazione carceraria minorile oggi è durissima. Dopo il Decreto Caivano, gli ingressi negli IPM sono aumentati del 40%. Qual è la vostra esperienza?

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La situazione è di emergenza totale. Sovraffollamento, spazi insufficienti. Diventa difficile lavorare, anche solo organizzare un laboratorio. Il carcere minorile viene considerato come mettere la polvere sotto al tappeto. Dal punto di vista del legislatore ci sono stati errori multipli. Prima di fare leggi più severe, ti assicuri di avere strutture che possano ospitare tutti i ragazzi. Il secondo errore è che questo dà ancora meno possibilità di un’opportunità diversa. Quando prendi un ragazzo di 15 anni e lo metti con ragazzi fino a 25 anni già strutturati criminalmente, li porti all’università del crimine. Il legislatore pensa solo alla pena. Ma se guardi davvero la storia di questi ragazzi, la pena l’hanno già vissuta. Il reato è solo il sintomo finale.

C’è un episodio che porti con te? Qualcosa che ti ha fatto dire: “Ne è valsa la pena”?

Ce ne sono tanti. Quando chiudiamo un pezzo forte e lo riascoltiamo, e ci diciamo: “Com’è venuta bene!”, quello è un momento in cui ci dimentichiamo dove siamo. Siamo solo musicisti. Altri giorni sono pesanti. C’è chi prova a togliersi la vita, chi si chiude. Alcuni si perdono. C’è il ragazzo che esce, sbaglia, ricade, e poi decide di cambiare. C’è chi si fidanza, chi trova lavoro. Per noi anche uno solo è già moltissimo.

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Come si regge economicamente un progetto così?

Attraverso una rete pubblico-privata. Le fondazioni Altamane e San Zeno ci sostengono. In alcuni casi riceviamo fondi anche dal Centro di Giustizia Minorile, soprattutto per il teatro. A Nisida stiamo sperimentando un progetto pilota che coinvolge ragazzi dell’IPM e del territorio, unendo musica e teatro.

Un prossimo progetto?

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Stiamo costruendo una piccola etichetta discografica interna, per lavorare con i ragazzi anche fuori. Perché fare musica non significa solo cantare. C’è chi mixa, chi scrive testi, chi fa grafica, chi registra. L’economia della musica può offrire mestieri. Non tutti diventeranno rapper, ma possono imparare a restare nel mondo della musica con competenze vere.

E te? Come sei arrivato lì?

Tutto è iniziato con Cappotto di legno, con Ezio Bosso; un pezzo del 2008 che divenne una campagna di MTV contro le mafie. Da lì mi contattarono scuole, associazioni, educatori. Una mi invitò all’IPM di Airola. Da allora non sono più uscito. Sono cresciuto in periferia, ma ho avuto una famiglia solida. Questa per me è una restituzione. Ma è anche un terreno di ricerca artistica perché i ragazzi ti portano sempre idee nuove. Lì dentro succedono cose vere. E io credo che oggi ci sia un bisogno enorme di verità.

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