Mio fratello Giorgio: Morandi raccontato da sua sorella

Un libro che spoglia il pittore dalle vesti del mito e lo riporta all’essenziale: l’uomo, la casa, la pittura come gesto quotidiano e civile.

“Mio fratello Giorgio” di Elisabetta Brunelli e Maria Teresa Cremonini, edito da Minerva Edizioni - recensione di Alessia de Antoniis
“Mio fratello Giorgio” di Elisabetta Brunelli e Maria Teresa Cremonini, edito da Minerva Edizioni
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

22 Giugno 2025 - 20.58


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di Alessia de Antoniis

Cosa resta di un pittore una volta spente le luci delle mostre e chiusi i cataloghi ragionati? Cosa rimane quando si smette di parlare di “ricerca formale” e “sintesi cromatica” per tornare semplicemente all’uomo che ogni mattina si alzava, preparava il caffè, accarezzava il cane e decideva se quel giorno avrebbe dipinto bottiglie o paesaggi?

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Mio fratello Giorgio di Elisabetta Brunelli e Maria Teresa Cremonini (Minerva, 2025) è la risposta a questa domanda. Un libro che ha il coraggio di spogliare Giorgio Morandi delle vesti solenni del Maestro per restituircelo nella sua umanità quotidiana, attraverso gli occhi di chi lo ha visto vivere giorno dopo giorno: sua sorella Maria Teresa.

L’operazione è audace, quasi spericolata. Far parlare in prima persona una donna morta nel 1994 per raccontare un fratello scomparso nel 1964 potrebbe sembrare un artificio. Invece è un atto d’amore. E funziona. Perché quando Maria Teresa, ricostruita dalle autrici con pazienza filologica, ci racconta di Giorgio che cambia casa per non sentire i rumori dell’osteria, o che si affeziona al cane Bobi, o che ironizza sui visitatori troppo zelanti (Arrivò a istruire personalmente i vicini, inclusa Franca e il salumiere, a non rivelare il suo domicilio, dicendo: “Vorrei vivere in pace. Da quando ho avuto il riconoscimento alla quarta Biennale di San Paolo del Brasile, ricevo più visitatori dall’estero che italiani. Franca, mi aiuti e lo dica anche al salumiere. Non mi conoscete), ci restituisce qualcosa che nessuna analisi stilistica potrà mai darci: il senso di una presenza.

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In più punti emerge come Morandi avesse bisogno di tranquillità. Non la quiete come fuga dal mondo, ma come condizione necessaria per guardarlo davvero. Per vedere quello che gli altri, nella fretta, non vedono: la dignità di una bottiglia, la malinconia di un paesaggio, la geometria segreta delle cose semplici.

Il libro è una passeggiata nella Bologna del primo Novecento, vista da dentro, da una finestra di Via Fondazza. Ci sono gli amici intellettuali – Raimondi, Longhi, Magnani Rocca – ma anche il droghiere, il gelataio, la rumorosa osteria che diventa insopportabile. C’è il futurismo, con quella mitica mostra di una notte al Baglioni, dal tramonto all’alba, e c’è il fascismo attraversato in punta di piedi, con l’eleganza di chi sa che l’arte vera è sempre, per sua natura, resistenza. Ci sono gli amici, “coloro che erano di casa: Monica Vitti, Ghiringhelli da Milano, Gino Bartali, Vittorio De Sica”.

Le sorelle Morandi emergono da queste pagine non come figure ancillari, custodi silenziose del genio di famiglia, ma come donne emancipate, colte, capaci di tenere testa agli intellettuali di passaggio e di gestire con sapienza l’eredità del fratello pittore. Maria Teresa soprattutto, mecenate e battagliera, che si scontra con burocrati e politici per difendere la memoria di Giorgio e donare le sue opere a Bologna.

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C’è un momento, nel libro, in cui Maria Teresa racconta di Giorgio che osserva il paesaggio con il cannocchiale dalla casa di Grizzana. È un’immagine che vale più di mille analisi critiche. Il pittore che guarda lontano per dipingere vicino, che ha bisogno di distanza per cogliere l’essenza. È la metafora perfetta di un’arte che ha fatto della sottrazione il suo linguaggio, del silenzio la sua eloquenza.

La scelta di inserire il volume nella collana “Sustainability Art” non è casuale. Morandi “sostenibile” ante litteram, pittore del poco e del necessario, profeta involontario di un mondo che oggi riscopre il valore della lentezza. Le sue nature morte non sono solo esercizi di stile ma lezioni di vita: insegnano che si può vivere con poco, che la bellezza non ha bisogno di clamore, che l’autenticità è l’unico lusso che conti davvero.

Il libro regala anche un curioso aneddoto su questo Morandi: “quando i suoi preziosi pennelli, che lo avevano accompagnato nella realizzazione delle opere, diventavano inutilizzabili, li legava con uno spago e li seppelliva in giardino, in segno di gratitudine e rispetto di una vita dedicata all’arte e per rinnovare il ricordo religioso degli strumenti della sua pittura”

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Il testo scorre come una conversazione al tavolo della cucina, inframmezzato da espressioni dialettali bolognesi che restituiscono sapore e calore a una narrazione che avrebbe potuto essere fredda archeologia. Invece è vita che pulsa, è memoria che si fa presente. Le fotografie di Walter Breveglieri completano questo album di famiglia allargata, mostrandoci un Morandi in movimento, che incontra, parla, sorride. Lontano anni luce dall’immagine del pittore solitario e schivo costruita dalla critica.

Non è un libro perfetto. La voce ricostruita di Maria Teresa, a volte tradisce la sua natura di artificio letterario; il tono celebrativo proprio di chi ama, può alterare zone d’ombra che pure dovevano esistere. Ma sono difetti veniali di fronte alla forza di un’operazione che restituisce carne e sangue a un’icona.

Nel panorama degli studi morandiani, credo che questo libro occupi uno spazio tutto suo. Non è un catalogo, non è un saggio critico, non è nemmeno una biografia tradizionale. È qualcosa di più raro e prezioso: è un ritratto d’amore. Il ritratto di un uomo che ha saputo fare della sua vita un’opera d’arte silenziosa, del suo appartamento un laboratorio di bellezza, della sua famiglia un presidio di valori autentici.

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Mentre lo leggevo lo immaginavo girato da Pupi Avati; mi richiamava alla memoria “Lei mi parla ancora”. Nella postfazione trovo: “I luoghi di Giorgio Morandi è una collana di Edizioni Minerva, nata curiosamente a seguito della proposta cinematografica sul pittore rivolta ai fratelli Avati durante la conferenza stampa, sempre tenuta al Grand Hotel Majestic, del film La quattordicesima domenica del tempo ordinario”. Il fatto che si parli di un progetto cinematografico in gestazione non stupisce. Questa storia, Giorgio visto da Maria Teresa, la Bologna del Novecento vista da Via Fondazza, l’arte italiana vista dall’interno di una casa borghese che è diventata santuario laico, ha già in sé la forza narrativa del grande cinema. Il libro ne è la sceneggiatura perfetta.

Mio fratello Giorgio arriva in un momento in cui l’arte, in ogni sua forma, ha bisogno di riscoprire il senso profondo del fare creativo al di là delle mode e del mercato. In questo senso, il ritratto di un pittore che non amava la gloria ma amava dipingere, che rifuggiva le commissioni ma non le amicizie, che cercava il silenzio ma non la solitudine, è più attuale che mai.

Cosa resta del grande pittore? Resta quello che Maria Teresa ci restituisce: un uomo che ha saputo guardare il mondo con occhi nuovi e ce lo ha restituito più bello, più vero, più nostro. Resta la lezione di una vita dedicata all’essenziale. Resta, alla fine, quello che conta davvero: l’amore per le cose semplici e la capacità di trasformarle in poesia.

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