Con “Lucia” Bernard Minier reinventa il noir: Spagna e demoni interiori per un nuovo ciclo narrativo
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Con “Lucia” Bernard Minier reinventa il noir: Spagna e demoni interiori per un nuovo ciclo narrativo

Il giallista francese Bernard Minier presenta Lucia, un noir ambientato in Spagna tra omicidi rituali, studenti di criminologia e una protagonista fuori dagli schemi.

Con “Lucia” Bernard Minier reinventa il noir: Spagna e demoni interiori per un nuovo ciclo narrativo
Bernard Minier
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Seba Pezzani Modifica articolo

27 Giugno 2025 - 12.26


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Estate. Caldo torrido. Non serve essere sotto l’ombrellone per godersi un buon libro. E, forse, non è più nemmeno pertinente il dovere morale di un buon romanzo da spiaggia di essere voluminoso in funzione del vecchio detto secondo cui più dura il piacere, meglio è. Anche perché se un libro buono non è, prolungare la sofferenza del lettore è un delitto.

E di delitti parliamo. Ma in maniera seria. Il giallista francese Bernard Minier la materia – sul piano letterario, sia ben chiaro – la padroneggia alla grande. Autore di grande successo nel suo paese, si sta ritagliando una fama crescente anche in Italia. Con pieno merito, mi sento di aggiungere. Il suo nuovo romanzo Lucia – La prima indagine di Lucia Guerrero (Baldini+Castoldi, traduzione di Raffaella Patriarca, pagg 475, euro 22), si inserisce nel filone del noir moderno transalpino, impreziosendosi di approfondimenti sociali non banali. E i lettori che puntano al librone da spiaggia possono stare tranquilli: Lucia si presenta come un bel tomo!

Si parte da una scena raccapricciante che dà immediatamente il polso della situazione al lettore e imprime alla storia un ritmo narrativo che rende la suspense altissima, quasi insostenibile: la crocefissione di un poliziotto su una collina dalle parti di Madrid. Il poliziotto è letteralmente incollato al crocefisso e, prima della pietosa deposizione dell’agente, viene chiamata sul posto la tenente Lucia Guerrero che con la vittima condivideva più della semplice professione. Pare proprio che qualcuno abbia coreografato la scena. Lucia Guerrero, con l’aiuto di un professore di criminologia dell’università di Salamanca e un gruppetto di suoi studenti, cercherà di rimettere insieme le tessere di un puzzle diabolico che, attraverso altri delitti isoluti del passato, è andato componendosi negli anni.

In visita in Italia, Minier ha risposto ad alcune nostre domande.

La suspense è il cuore della sua scrittura. Per crearla, preferisce affidarsi a metodo e tecnica oppure lascia che il flusso creativo del momento abbia il sopravvento?

«Entrambe le cose. L’autore francese Didier van Cauwelaert ha scritto che “Una pianta è come una strada: è fatta per essere lasciata”. A volte, seguo un’idea, a volte no. D’altro canto, James Ellroy dice di rispettare scrupolosamente le regole del genere, sapendo, però, di volerci mettere qualcosa in più.»

Ci spiega la scelta di ambientare la sua storia in Spagna, visto che la Francia è la patria del “polar”, del noir, e lei è a tutti gli effetti francese?

«Mia madre è nata in Spagna per poi trasferirsi in Francia a otto anni. Io in Spagna sono tante volte, assistendo alla transizione democratica della nazione nel post-franchismo e alla nascita del movimento culturale chiamato “La movida”. A un certo momento della mia carriera di scrittore, ho deciso di congedare il mio eroe, il comandante di polizia Martin Servaz, e di puntare su un personaggio totalmente diverso. Ho optato per una donna, spagnola e per giunta di una generazione più giovane e così è nata Lucia Guerrero.»

Il ritratto del professor Salomón Borges è talmente vivido che sembra quasi che lei abbia tratto spunto da un vero accademico. È così? Esistono equipe universitarie che operano in quel modo e assistono la polizia in Spagna o, magari, in Francia?

«No, il professore, con la sua personalità estremamente particolare, è frutto della mia immaginazione. Esiste, però, all’università di Salamanca un dipartimento di Criminologia, all’interno della facoltà di Giurisprudenza, con un professore che guida un’equipe che ho avuto modo di incontrare. Così ho potuto ricostruire l’atmosfera giusta. Dunque, mi sono basato sul loro lavoro di ricerca, sulla loro conoscenza della materia per creare quel personaggio e i suoi studenti. Non sono, però, a conoscenza di gruppi di studenti guidati da un professore universitario che collaborino con la polizia.»

La sua descrizione di quel mondo studentesco non è di cartone e pulsa di vita. Lo ha frequentato?

«Io stesso sono stato studente all’università di Tolosa e, come detto, ho incontrato un gruppo di studenti e il loro professore di Criminologia presso l’università di Salamanca. Questo mi ha consentito di far loro un’infinità di domande, riuscendo così a cogliere l’atmosfera, l’ambiente di una città universitaria, ricchissimo di giovani studenti e, dunque, molto vivace.»

Le città di Salamanca e Segovia intrigano come personaggi veri e propri e non come semplici ambientazioni. È una scelta voluta?

«Assolutamente. Sono città bellissime e fuori dalle rotte più frequentate dai turisti francesi. Scrivo sempre come se stessi facendo un film: ogni idea che concepisco ha un che di visuale. Di recente ho rivisto La grande bellezza di Sorrentino, di cui Roma è protagonista assoluta, come la è del film Mamma Roma di Pasolini. Se una città può trasformarsi in un personaggio in un film, perché non può farlo in un romanzo?»

Esiste ancora spazio creativo nel noir?

«Sì, sempre. Ma la stessa cosa vale per la letteratura in senso lato: può dire tanto in un’epoca come quella terribile che stiamo vivendo. Oggi assistiamo a cambiamenti più rapidi che mai sul piano sociale e politico e un romanzo è uno strumento adeguato per riflettere su tali trasformazioni. Leggo sempre di tutto, da Emmanuel Carrére a Claudio Magris, da Richard Powers ad Antonio Muñoz Molina. »

Ogni noirista nella sua carriera di scrittore si trova a esorcizzare qualche demone, se non altro perché quella è la materia con cui deve convivere, pur se solo in un romanzo. Lei quali demoni scaccia con i suoi libri?

«Non credo che si possa esorcizzare nulla. Sono un uomo realistico, sono uno scrittore realistico che parla della realtà attraverso la forma del romanzo. Però, ammetto di considerare quei demoni come una metafora del dramma, dei fallimenti. Chi nella vita, soprattutto in Francia, non ha difficoltà, problemi? Quindi, non posso dire che la scrittura sia una sorta di terapia, ma è certamente una passione e una grande boccata d’ossigeno. E, comunque, la scrittura mi permette di capire il mondo in cui viviamo, l’epoca che stiamo attraversando e persino me stesso.»

Ci sono autori di noir/thriller contemporanei (europei o meno) con cui sente di avere delle affinità?

«Sì. Non so se si possa parlare di affinità vere e proprie, ma ci sono certamente degli autori contemporanei per i quali provo amicizia e ammirazione. Per esempio, ho un’ammirazione infinita per Jo Nesbø, il grande maestro del noir norvegese, che per me è uno dei più grandi del momento, per il suo stile di scrittura, la sua complessità. Ho grande ammirazione e amicizia anche per i miei connazionali Franck Thilliez e Michelle Bussi, autori che conosco benissimo di persona e che sono bravissimi, umili e integri.»

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