Architettura e memoria
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Architettura e memoria

Non siamo in guerra. Almeno ufficialmente. Non siamo reduci da un disastro naturale o da una sommossa popolare soffocata col pugno di ferro. Eppure...

Architettura e memoria
Il memoriale del genocidio armeno
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Seba Pezzani Modifica articolo

28 Giugno 2025 - 12.34


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Non siamo in guerra. Almeno ufficialmente. Non siamo reduci da un disastro naturale o da una sommossa popolare soffocata col pugno di ferro. Eppure, mai come in questi tempi difficili è essenziale tenere la barra dritta, non perdere di vista quei principi etici alla cui adesione ogni sistema democratico che meriti tale appellativo non dovrebbe mai derogare. A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra, è quanto mai importante difendere la memoria, propagarla nella sua integrità per offrirne il valore di riferimento morale a cui le nuove generazioni dovranno aggrapparsi al fine di non ripetere gli errori che la storia non può mai insegnare a eludere.

Per preservare tale memoria esiste addirittura un ente internazionale apposito, l’ICMEMOHRI (International Committee of Memorials and Human Rights Museums), fondato nel 2001 nel corso della conferenza generale dell’ICOM a Barcellona con il compito dichiarato di promuovere diritti umani, giustizia internazionale e valori democratici attraverso il ricordo di crimini di guerra, repressione politica, schiavitù, violenza sistemica e deportazione forzata.

L’architettura dei memoriali (EA Editoriale Anicia, pagg 246, euro 28), di Aldo De Poli, Massimiliano Azzolini e Manuele Camorali, illustra una serie di luoghi della memoria creati in ogni angolo del pianeta con finalità simili e ne traccia il percorso storico e la rilevanza celebrativa anche grazie a fotografie estremamente suggestive, a tratti commoventi. All’interno di questo prezioso volume troverete luoghi disparati come lo UTA Flight 772 Memorial, a Aïr-Téméré, realizzato nel deserto del Sahara, in Niger, dall’associazione dei familiari delle vittime di un attentato aereo; il Mausoleo delle Fosse Ardeatine di Roma; lo Yad Vashem, memoriale della Shoah a Gerusalemme; il Memoriale del Genocidio Armeno a Erevan; il memoriale “Prescribed to Death” di Chicago, dove un muro è rivestito di migliaia di pillole su cui sono scolpiti volti umani, simbolo della devastazione degli oppioidi; svariati monumenti ricavati in lager nazisti; e molto altro.

Massimiliano Azzolini, architetto italiano attualmente residente a Dublino, è segretario dell’ICOM ICMEMOHRI e ci ha aiutato a capire meglio in cosa si estrinsechi l’attività preziosa di questo comitato internazionale.

Che cos’è un luogo della memoria?

«Un luogo della memoria non è semplicemente uno spazio fisico, ma un punto di condensazione simbolica, dove storia, emozione e identità collettiva si intrecciano. È un sito, materiale o immateriale, in cui una comunità decide di fissare e custodire il ricordo di un evento, di un gesto, di una figura o di un trauma ritenuti fondativi per la propria identità. Il concetto è stato definito con lucidità dallo storico francese Pierre Nora, nei volumi Les lieux de mémoire. Secondo Nora, un luogo della memoria è un’“unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo hanno reso un elemento simbolico di una comunità”. Ma non basta un monumento per garantire la durata della memoria. Il tempo muta, gli usi si trasformano, il contesto si dissolve. Proprio per questo, il cuore vivo della memoria risiede nei riti, nei gesti, nella partecipazione. Oggi, tuttavia, la memoria si confronta con sfide nuove. Non si tratta più soltanto di conservare, ma di progettare occasioni per reinterpretare il passato alla luce del presente. Alla fine, un vero luogo della memoria è un dispositivo culturale e civile: mette in scena il ricordo, stimola riflessioni, costruisce appartenenza. E soprattutto, resiste al tempo non perché durevole nella materia, ma perché capace di continuare a parlare alle coscienze, anche quando cambiano i modi del ricordare.»

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Com’è che ha finito per accostarsi a questo tema?

«Ho iniziato a frequentare l’ICMEMOHRI e a iscrivermi all’ICOM quando, nel 2017, fui invitato a intervenire alla loro conferenza annuale a Cincinnati per presentare le prime ricerche sul rapporto tra architettura e memoria, avviate già durante gli anni universitari insieme ad Aldo De Poli e Manuele Camorali, con cui oggi condivido la scrittura del libro. Da allora ho continuato a partecipare regolarmente alle conferenze fino a candidarmi per il consiglio direttivo del comitato. Sono stato eletto come segretario generale durante la Conferenza Triennale ICOM a Kyoto del 2019. Mi sono avvicinato a questo tema per la sua complessità: è un ambito in cui non esistono formule fisse. Viviamo in un mondo in cui si assiste a un progressivo restringimento degli spazi di ambiguità, a una crescente forma di censura, esplicita o autoimposta. Lavorare con la memoria, in fondo, significa confrontarsi con una sorta di strana anarchia: un contesto in cui le cose non sono ciò che sembrano, dove pensi di essere arrivato in fondo a una verità, per poi scoprire che esiste un quadro ancora più ampio, capace di rimettere tutto in discussione e riaprire lo spazio al dubbio.»

Quali sono le principali difficoltà che il comitato incontra quotidianamente?

«Come comitato internazionale dell’ICOM, il nostro lavoro si colloca all’interno del più ampio dibattito museologico. Ma occupandoci in particolare di musei memoriali e di diritti umani, siamo spesso chiamati a confrontarci con contesti delicati, situazioni politicamente sensibili, e memorie ancora vive o controverse. Pochi mesi fa, ad esempio, siamo stati interpellati da alcuni colleghi della Repubblica Dominicana, preoccupati per il tentativo di trasformare la residenza del dittatore Rafael Trujillo in un museo. In casi come questi, ci viene chiesto di esprimere posizioni pubbliche, di offrire supporto critico, pur sapendo di avere strumenti limitati: siamo un’organizzazione culturale, non politica. Ma proprio per questo il nostro ruolo è ancora più importante, perché possiamo porre domande, generare dibattiti, creare consapevolezza. Essendo una comunità mondiale, composta da membri provenienti da contesti culturali, storici e linguistici molto diversi, un’altra difficoltà è mantenere un dialogo costante, aperto e costruttivo. Ogni conferenza, ogni evento, ogni discussione online è un esercizio di ascolto e mediazione. È impegnativo, ma è anche la nostra forza: accogliere la pluralità senza ridurla a un’unica narrazione.»

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L’Italia è un paese in cui architettura e memoria vanno a braccetto? E il numero di memoriali esistenti è proporzionale a quello di eventi che meriterebbero di restare indelebili?

«Non esiste un criterio oggettivo per decidere quali eventi “meritano” un memoriale e quanti ne “servirebbero”. Alcuni eventi, come la Shoah, la Resistenza, le stragi mafiose o il terrorismo degli anni di piombo, hanno un valore fondativo, sono riconosciuti come momenti centrali della nostra storia recente. Sono eventi indelebili, che pongono un obbligo morale di trasmissione. Ma anche in questi casi, la forma della memoria non è mai neutra né scontata: cambia col tempo, si rinnova o si affievolisce a seconda dei contesti. La verità è che ogni memoria pubblica è il risultato di un confronto, spesso anche di un conflitto, tra visioni diverse del passato. Ci sono memorie che riescono a imporsi e altre che restano ai margini, o che vengono dimenticate del tutto. A volte manca la volontà politica, a volte mancano le risorse, altre volte manca un consenso condiviso su cosa e come ricordare. In Italia, l’architettura è fortemente legata al passato. Il nostro territorio è costellato di monumenti, sacrari, rovine e segni della storia. Ma avere tanti segni visibili non significa necessariamente avere una memoria viva. Un memoriale, da solo, non basta. Serve una comunità che lo riconosca, che continui a interrogarsi sul suo significato.»

Esistono luoghi talmente legati al ricordo di un evento storico da non necessitare di un monumento che ne preservi la memoria?

«Sì, esistono luoghi almeno in apparenza autosufficienti nel mantenere viva la memoria. Pensiamo ad Auschwitz, a Ground Zero o, in Italia, a Piazza Fontana a Milano o le Fosse Ardeatine a Roma. Luoghi dove la storia è così presente da rendere superfluo ogni tentativo di memorializzazione convenzionale. Ma è solo una verità parziale. Per quanto un luogo sembrie “parlare da solo”, la memoria non è mai garantita una volta per tutte. Col tempo, ogni segno può indebolirsi, ogni presenza può dissolversi nella normalità del quotidiano e i luoghi più emblematici rischiano di trasformarsi in semplici spazi, attraversati ma non interrogati. È per questo che spesso, anche in contesti fortemente segnati dalla storia, si sente il bisogno di un intervento architettonico, museografico o artistico. Non per sostituire ciò che c’è, ma per accompagnarlo, per evitare che il ricordo si riduca a una conoscenza superficiale o, peggio ancora, venga rimosso. In fondo, non esistono luoghi che “non necessitano” di memoria. Esistono semmai contesti in cui la memoria è così potente da imporsi spontaneamente. Ma anche lì, senza cura, senza aggiornamento, senza partecipazione, quella forza rischia di affievolirsi.»

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Tra i memoriali che ha avuto modo di vedere di persona, ce n’è uno che, per qualche ragione, le è rimasto particolarmente impresso?

«Sì, il memoriale di Nyamata, in Ruanda. È una chiesa dove, durante il genocidio dei Tutsi nel 1994, furono uccise circa 5.000 persone. All’interno tutto è rimasto com’era: i banchi coperti dai vestiti delle vittime, i fori di proiettile sui muri, le macchie di sangue ancora visibili. È un luogo che non filtra, non racconta da lontano: ti sbatte di fronte alla realtà in modo diretto. L’ho percepito ancora più chiaramente poche ore dopo, visitando il sito di Ntarama. Anche lì una chiesa, anche lì una strage, ma il luogo è stato musealizzato: pergolati, percorsi, oggetti messi dietro al vetro. La memoria c’è, ma è mediata. A Nyamata, invece, sembra che tutto sia accaduto ieri. Questo mi ha fatto sorgere delle domande. Quale dei due luoghi è più efficace nel raccontare? Nyamata, così diretto da risultare quasi insopportabile, o Ntarama, più filtrato ma forse più accessibile? Non ho una risposta.»

Vi prodigate per preservare la memoria attraverso strutture adeguate. Immagino, però, che esistano luoghi concepiti per alterare la memoria o per presentare un’immagine distorta della storia. Gliene viene in mente uno eclatante? E che tipo di atteggiamento ha il comitato internazionale in merito?

«Penso alla Valle de Cuelgamuros in Spagna, prima conosciuta come Valle de los Caídos. L’enorme complesso costruito da Franco per celebrare la sua vittoria nella guerra civile, presentato ufficialmente come luogo di riconciliazione. In realtà, per decenni è stato vissuto come uno spazio che glorificava la dittatura e ancora oggi è al centro di un acceso dibattito pubblico. Ma il problema non riguarda solo i luoghi nati con un’impronta distorta. Sta diventando sempre più frequente che anche musei memoriali originariamente pensati con rigore vengano, in seguito, manipolati da pressioni politiche. Direttori licenziati, percorsi narrativi modificati, contenuti censurati o riscritti per rispondere a una nuova linea ideologica. L’ICMEMOHRI non ha poteri esecutivi ma possiamo e dobbiamo alzare la voce. Promuoviamo il confronto tra esperienze diverse proprio per mantenere vigile lo sguardo critico.»

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