di Alessia de Antoniis
Al Campania Teatro Festival è andato in scena “Il mare ha cambiato colore (La mer a changé de couleur)”, progetto di teatro documentario firmato da Julie Kretzschmar e Bruno Boudjelal. Lo spettacolo nasce da una lunga ricerca transnazionale che attraversa Francia, Tunisia, Marocco e Italia, con l’ambizione di costruire una narrazione intima sulle migrazioni nel Mediterraneo.
Il titolo riprende una frase di Pasolini del 1959 che, affacciandosi sulla baia di Napoli al tramonto, annotava: “Il mare ha cambiato colore”. Una citazione che diventa chiave per leggere il Mediterraneo come paesaggio simbolico di transito, trasformazione, speranza e perdita. In scena gli stessi Julie e Bruno seduti di spalle al pubblico, schermi che proiettano testimonianze, mappe, frammenti. Nessuna frontalità, nessun contatto. Una scelta formale netta, che si rivelerà fatale.
Lo spettacolo si articola come un dispositivo meta-narrativo, tra lecture-performance e montaggio documentario. Bruno e Julie riflettono sul senso del loro raccontare. Lui rivendica la finzione come forma di verità emotiva. Lei dubita: “Credi che basti dire che il tuo desiderio è autentico perché tutti questi incontri siano legittimi?” La tensione tra documentazione e rappresentazione attraversa tutto il lavoro.
Ma il paradosso è evidente: mentre si parla di prossimità, la messa in scena produce distanza. Il pubblico non è raggiunto emotivamente. Silenzio in sala, disorientamento. Il pubblico non aveva neanche capito che lo spettacolo fosse terminato. Il materiale è potente, ma l’effetto è neutro. È un problema di forma comunicativa, non di contenuti.
L’uso delle immagini risulta inefficace. Dopo anni di sovraesposizione mediatica, vedere corpi di migranti non genera più reazione. Siamo assuefatti. È qui che si affaccia il rischio del tokenismo: l’utilizzo simbolico di soggetti marginalizzati senza reale trasformazione nei meccanismi di potere. Una dinamica che, in questo caso, lo spettacolo non decostruisce.
Anche l’aspetto linguistico, per quanto ricco (francese, arabo, italiano), non riesce a costruire vera relazione. Momenti toccanti, come la storia di Douglas che taglia i suoi dreadlocks per non essere riconoscibile, restano confinati in uno spazio audiovisivo che il pubblico osserva ma non abita. Il teatro si riduce a conferenza multimediale. Senza rischio, senza contatto.
Viene da chiedersi: dopo anni di immagini ben più cruente, che senso ha uno spettacolo così? La risposta, forse, è già nei dubbi espressi in scena da Julie e Bruno. Ma se il loro obiettivo era “creare uno spazio che non annulli la presenza dell’altro”, bisogna riconoscere che quel tentativo è fallito. L’altro resta schermo, non incontro.
Il vero nervo scoperto è l’intellettualismo che dimentica l’emozione. È una sindrome diffusa nel teatro d’autore contemporaneo, dove spesso si confonde la complessità concettuale con la qualità artistica. La questione dell’assuefazione alle immagini è particolarmente acuta. Mostrare, ancora una volta, corpi di migranti senza inventare un nuovo dispositivo, rischia di essere non solo inefficace, ma controproducente.
Il paradosso dell’intero lavoro è lampante: mentre il testo parla di incontro, la messa in scena genera distanza. È quasi una metafora involontaria dell’Europa che si racconta accogliente ma continua a costruire muri. Un teatro che intende denunciare la distanza, ma finisce per replicarla.
“Il mare ha cambiato colore” è un progetto necessario nelle intenzioni, onesto nei presupposti, stratificato nei contenuti. Ma in teatro non basta avere ragione: bisogna trovare il gesto che faccia passare il senso. E in questo caso, la macchina scenica non è riuscita a farlo accadere. Il rischio, quando il teatro parla solo a se stesso, è quello di mancare l’unico vero obiettivo: toccare chi guarda. Non solo la mente. Anche il cuore.
Visto alla Sala Assoli di Napoli il 30 giugno 2025, nell’ambito della XIX edizione del Campania Teatro Festival – replica delle ore 18:00