Danny Seraphine: "Suono sempre come fosse l'ultima volta"
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Danny Seraphine: "Suono sempre come fosse l'ultima volta"

Batterista e co-fondatore dei Chicago, dalle gang alla Rock and Roll Hall of Fame: "Il successo mi ha corrotto, ma la musica mi ha salvato"

Danny Seraphine - batterista e cofondatore dei Chicago - intervista di Alessia de Antoniis
Danny Seraphine - batterista e cofondatore dei Chicago
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

10 Luglio 2025 - 12.08


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di Alessia de Antoniis

Le mani di Danny Seraphine si muovono come quelle di un jazzista d’annata: fluide, precise. A 76 anni, il co-fondatore dei Chicago e batterista della Rock and Roll Hall of Fame attacca ancora la sua batteria con la stessa potenza che ha contribuito a definire la colonna sonora di un’intera generazione. Ma oggi, nel backstage dell’IF Caffè del Mare di Ostia, quelle stesse mani raccontano una storia diversa: una storia di sopravvivenza, redenzione; e il prezzo da pagare quando si abbandona tutto quello che si è sempre conosciuto.

“Avevo nove anni, forse dieci, correvo con le gang,” dice Seraphine, con il suo accento di Chicago. “Risse, guai, tutto quanto. Poi un giorno arriva questa telefonata: un’audizione. Quella chiamata mi ha salvato la vita.” Si ferma, fissando i suoi palmi segnati dal tempo. “Da quel momento in poi, solo musica. Doveva essere così.”

Questa sera, Seraphine salirà sul palco dell’IF Caffè del Mare di Ostia con la sua California Transit Authority – chiamata così dal nome originale dei Chicago – per offrire quella che definisce “musica vera” a un mondo che sta annegando nell’Auto-Tune e nella perfezione digitale. Niente basi, niente reti di sicurezza, solo rock and roll puro e senza filtri, suonato come dovrebbe essere. È una filosofia che lo ha accompagnato attraverso cinque decenni di musica, un’uscita brutale dalla sua leggendaria band e un esilio di 15 anni che quasi lo ha spezzato.

“Ogni volta che suono, dimentico tutto, – spiega, mentre i suoi occhi che si accendono di quel fuoco familiare – Tutte le sofferenze spariscono. È come una droga.”

Dalla tua infanzia nelle gang di Chicago alla Rock and Roll Hall of Fame: a quale fase della tua vita sei più grato e quale ti stupisce ancora oggi?

Sono grato a quel bambino di nove, dieci anni che sognava di suonare la batteria. Ero già in brutti giri, le gang, le risse. C’è voluto del tempo. Poi un giorno arriva una telefonata: un’audizione. Quello mi ha salvato. Da quel giorno, solo musica. E oggi, a 76 anni, sono ancora qui. Di questo sono felice e grato.

La cosa che mi stupisce? Che ogni volta che suono, dimentico tutto. I problemi spariscono. È un antidoto.

Che cosa ti hanno lasciato le gang di Chicago?

La sensazione di appartenenza, la lealtà. Non tutto era buono, ma c’era una forma di saggezza: ci si proteggeva a vicenda, come in una famiglia. Avevo la mia famiglia a casa: mia sorella, mia madre, mio padre. E poi la mia famiglia per strada. È la stessa cosa nella mia band: siamo insieme da vent’anni. Ci prendiamo cura gli uni degli altri. Quelle gang per le strade di Chicago mi hanno formato. Non voglio glorificarle, ma non le rinnego.

Hai studiato con leggende come Jo Jones e Chuck Flores. Qual è la lezione più importante che nessuno ti può insegnare dietro a una batteria?

A essere professionisti. Non importa se stai male. La gente ha pagato per vederti suonare e devi essere bravo. A volte vai sul palco anche se sei malato e poi suoni benissimo. Poi finisci e crolli. Quella è la lezione: suona sempre come se fosse l’ultima volta.
Perché non sai mai quando ti verrà tolto tutto. A me è successo.

Con la CTA suonate tutto dal vivo, senza basi. In un mondo dominato dall’autotune, cosa si guadagna, o si perde, a suonare senza una rete di protezione?
Non si perde nulla. Vieni al concerto. Tutto quello che senti è reale. È pura emozione, sentimento e verità. Vedo che la nostra musica tocca le persone. È autentica. I musicisti e i cantanti sono davvero bravi. E io, a 76 anni, riesco ancora a suonare. Non mi piacciono le basi, le detesto. Sono all’antica…vecchia scuola…

Hai lasciato i Chicago nel 1990 e sei stato lontano dalle scene per 15 anni. Cos’è stato più difficile: restare lontano dalla musica o tornare con i CTA?

Entrambe, ma in modo diverso. Stare lontano era come avere un buco dentro. Mancava sempre qualcosa. Quando ho deciso di tornare, ho capito che mi mancava suonare. Era per quello che vivevo. Ma stavo cercando di scappare da tutto. Mi ci è voluto tempo. Sei mesi di duro lavoro per ritrovare la fiducia. È stato difficile tornare, ma bello. Mi ha ricordato cosa avevo lasciato. Tutti possiamo avere una fase in cui crolliamo. Poi però ci si rialza e si guarda in alto, non più in basso.

Lasciare i Chicago è stata una ferita o una liberazione?

Doveva succedere, credo. È stato doloroso il modo in cui è accaduto. A volte fa ancora male. Ma oggi sono un uomo migliore. E un batterista migliore. È stata parte del mio cammino.
Sai, a volte avere troppo successo e potere… corrompe. Forse non tutti, ma a me ha dato alla testa. Un po’ mi ha corrotto. Ma ne sono uscito più forte.

Quando Rolling Stone ti ha inserito tra i 100 migliori batteristi, ti sei sentito riconosciuto?

Quando ero giovane, a Chicago, sentivo di non essere apprezzato. Ma ora non mi interessa più. La gioia me la dà la musica. E poi il rispetto dei musicisti… Incontro spesso persone che mi dicono: “La tua musica mi ha migliorato la vita”. E questo mi basta. Non ho bisogno di altro.

Il progetto più strano su cui hai lavorato?

Forse il progetto più strano è quello che vorrei dimenticare… Però mi viene in mente un episodio dei primi anni con i Chicago, ad Atlantic City. Suonavamo allo Steel Pier, un posto storico. Prima del concerto vedo una donna lanciarsi da un cavallo in acqua, poi una signora con degli scimpanzé. Sembrava un film di Fellini. Surreale. E noi sul palco, come niente fosse. Follia.

Se potessi rivivere un concerto con la formazione originale dei Chicago, quale sarebbe?

Quando siamo tornati a Chicago, due anni dopo essere andati sulla West Coast a registrare. Quello show è stato bellissimo. Tutta la nostra famiglia era lì. Era come tornare a casa. Eravamo partiti con auto e rimorchi e siamo tornati, ancora sconosciuti, ma con il cuore pieno. Sapevamo che avremmo fatto qualcosa di importante. Era solo l’inizio. E lo abbiamo fatto.

Oggi tanti giovani ascoltano la musica degli anni ’60 e ’70. Secondo te, cosa aveva quella musica che quella di oggi sembra aver perso? Oggi abbiamo più mezzi, ma la musica sembra scadere più in fretta di uno yogurt.

Era reale. Nessun auto tune, nessun click track. Il nostro primo disco è del ’69: sono passati 55 anni e suona ancora bene. È questo che mi rende più orgoglioso. Non me lo sarei mai aspettato. All’epoca, per fare un disco, ci si metteva il tempo. Si esplorava. A volte si sbatteva contro un muro, altre si creava dal nulla. Non so quante volte è venuta fuori una grande canzone dal niente. È stata una vita bellissima. E per questo sono grato.

CHICAGO by Danny Seraphine’s CTA – with Tony Grant
Giovedì 10 luglio – dalle ore 21:00
IF Caffè del Mare – Lido di Ostia

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