Tre romanzi nei territori oscuri del Sud americano: tra paludi, violenza, religione e memoria di frontiera
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Tre romanzi nei territori oscuri del Sud americano: tra paludi, violenza, religione e memoria di frontiera

Le opera di Anna Bailey, Joe R. Lansdale e Nic Pizzolatto esplorano il Sud profondo tra violenza, mistero, fede ossessiva e marginalità sociale.

Tre romanzi nei territori oscuri del Sud americano: tra paludi, violenza, religione e memoria di frontiera
Louisiana, le paludi
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10 Luglio 2025 - 21.14


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di Rock Reynolds

Se non è una regola, poco ci manca: si scrive di ciò che si conosce. Quindi, è sempre bene ambientare una storia in un luogo che per noi non abbia segreti. Se, per giunta, la storia che si sta per raccontare è a tinte fosche e il luogo in cui si svolge ha un che di arcano se non, addirittura, di minaccioso, tanto meglio.

Le paludi enormi che si estendono a macchia d’olio tra la Louisiana e il Texas Orientale – poco a nord di quel Golfo che qualcuno vorrebbe ribattezzare “d’America” ma che da sempre sulle mappe appare come “del Messico” e, si spera, come tale continuerà ad apparire – sono talmente sinistre e pericolose da meritarsi talvolta un cartello con cui le autorità locali avvertono i visitatori che entrarvi o, comunque, deviare dai percorsi tracciati può essere pericoloso, financo letale.

È proprio la vicinanza del Golfo del Messico, una sorta di catino oceanico di acqua torrida che si scontra con altra acqua e aria più fredde dell’Atlantico, creando vortici ciclonici potentissimi, ad aver contribuito a creare quell’ambiente lussureggiante ma al tempo stesso instabile, turbolento, inquietante. La foresta – che, secondo l’antica tradizione nordica, avrebbe dovuto essere l’ambiente rassicurante per eccellenza – ha finito per trasformarsi nel topos letterario definitivo della paura e del mistero e i boschi della Louisiana e del Texas Orientale, fitti, ricchi di rampicanti, dominati dai pini e dalle mangrovie, bagnati da acquitrini in perenne trasformazione, frequentati da una fauna selvatica ricchissima e non particolarmente amichevole – alligatori, serpenti velenosi, linci, orsi, scorpioni – sono quanto di meno rassicurante vi sia.

È una terra che i forestieri considererebbero inospitale e che gli abitanti del posto non scambierebbero con nessun altro luogo quella in cui si svolge la fosca vicenda raccontata da Anna Bailey, un’autrice inglesissima per una storia americanissima. Il suo è un romanzo anomalo perché per circa due terzi si ha quasi la sensazione che chi l’ha scritto sia ossessionata dalla paura di non essere sufficientemente credibile in quanto non nativa del posto. Una sensazione che si stempera con il passare delle pagine e che, alla fine, si spegne del tutto: se sul risvolto non fosse indicata la nazionalità dell’autrice, forse nessuno se ne accorgerebbe.

I nostri ultimi giorni selvaggi (Feltrinelli, traduzione di Elena Cantoni, pagg 330, euro 19) di Anna Bailey racconta la poco edificante storia dei fratelli Labasque, una famiglia disfunzionale che vive ai margini della società, nel cuore della foresta della Louisiana, e che per sbarcare il lunario va a caccia di alligatori di cui vende la carne e la pelle. Quando Cutter, l’unica femmina Labasque, viene trovata priva di vita nel fango, la sua morte viene liquidata come un suicidio. Tutti sanno che era una poco di buono, una sorta di scarto del mondo civile, come pure i fratelli: Dewall, rissoso, sempre pronto a scattare, segnato indelebilmente dai maltrattamenti subiti a opera di un padre violento, e Beau, tossicomane, inaffidabile, mentalmente instabile. Eppure, c’è qualcosa che non quadra nella morte della ragazza e Loyal, giornalista, un tempo amica del cuore di Cutter, prima che qualcosa si guastasse irrimediabilmente nel loro rapporto e che lei decidesse di abbandonare la provincia per una grande città, ne è convinta e sarà lei a svolgere quelle indagini che la polizia pare poco propensa a condurre. È un debito di sangue con la vecchia amica, oltre che un autentico desiderio di giustizia.

L’atmosfera è pesante, a tratti respingente. Il lettore medio è portato a chiedersi perché mai calcare la mano in descrizioni truculente e in caratterizzazioni costantemente sopra le righe. Chi, però, abbia avuto modo di conoscere bene il sottobosco di scarsa – per non dire inesistente – alfabetizzazione della provincia americana e la sua propensione a un fatalismo di stampo evangelico che pare insinuarsi in ogni strato della società, malgrado la rigida separazione tra stato e religione sancita dalla Costituzione, non avrà particolari difficoltà a riconoscere il realismo della ricostruzione fatta da Anna Bailey. D’altra parte, basterebbe farsi un giretto in un bar o in un supermercato di quelle zone per rendersi conto che certe estremizzazioni da film tanto esagerate in fondo non sono. Questa, di fatto, è l’America. La sua impermeabilità al mondo esterno, fondata su una risibile presunzione di superiorità e infallibilità, conserva un che di primitivo che inquieta non poco.

Non deve sorprendere, dunque, che i protagonisti di questa storia – come quelli di numerosi romanzi e film americani – evidenzino una inusitata propensione alla violenza, un corredo educativo infimo, una straordinaria contraddittorietà di fondo tra una fede cieca nella bandiera e una diffidenza patologica verso le scelte del governo federale.

Joe R. Lansdale non ha certamente mai fatto mistero del fatto che il Texas Orientale in cui è nato, vive e ha sempre vissuto sia il personaggio principale delle sue storie. E che gli altri protagonisti dei suoi romanzi siano gente che incontra ogni giorno e non alieni frutto della sua fantasia malata. 

È singolare che, quasi in contemporanea con l’uscita in Italia del romanzo di Anna Bailey, siano stati pubblicati altri due romanzi di ambientazione analoga e simile tenore. Zucchero sulle ossa (Einaudi, traduzione di Luca Briasco, pagg 358, euro 19,50), proprio di Joe R. Lansdale, è il nuovo capitolo della fortunata serie di Hap & Leonard, due improbabili investigatori privati che scorrazzano per le strade e per i boschi del Texas Orientale, cacciandosi in più guai di quanti riescano a risolverne. Hap, dichiaratamente la controfigura letteraria dell’autore, è bianco, eterosessuale e democratico. Per contro, Leonard è nero, omosessuale e repubblicano, sostanzialmente un ossimoro. Al quattordicesimo episodio della saga, i due antieroi sono certamente un po’ invecchiati e imbolsiti, quasi imborghesiti, verrebbe da dire se non se ne conoscesse l’autenticità pulp, eppure le loro continue gag sono una garanzia per il lettore che voglia regalarsi qualche ora di spasso. Un peccato che la serie televisiva Hap & Leonard non sia andata oltre la terza stagione.

Altro successo ha avuto la serie culto True Detective, nata dalla penna di Nic Pizzolatto, un autore semisconosciuto fino al 2014, anno del suo debutto in televisione, malgrado l’uscita nel 2010 del suo secondo romanzo, Galveston, passato inizialmente quasi inosservato. E proprio quel romanzo, pubblicato originariamente in Italia da Mondadori, è stato di recente riproposto da un altro editore. Galveston (MinimumFax, traduzione di Giuseppe Manuel Brescia, pagg 285, euro 18) racconta la fuga dalla Louisiana in Texas di un killer da strapazzo al soldo di un boss di New Orleans che lo vuole morto e di una prostituta alle prime armi, tra autostrade polverose, acquitrini maleodoranti e deprimenti stanze di motel.

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