Maximilian Nisi: Il teatro deve servire alla vita, non alla vanità

Otto prime nazionali, una programmazione tutta dedicata alla commedia. E' il Festival Teatrale di Borgio Verezzi, da Haber a Leo Gassmann

Maximilian Nisi - direttore artistico del Festival Teatrale di Borgio Verezzi - intervista di Alessia de Antoniis
Maximilian Nisi - direttore artistico del Festival Teatrale di Borgio Verezzi
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27 Luglio 2025 - 23.46


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di Alessia de Antoniis

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Fino al 12 agosto si svolge il 59° Festival Teatrale di Borgio Verezzi: venti serate a picco sul mare nella piazzetta  del borgo medievale, con gran finale nelle Grotte del Valdemino. Maximilian Nisi, direttore artistico del festival, ha costruito un cartellone interamente dedicato alla commedia con otto prime nazionali su undici spettacoli. Un cartellone che spazia dal “Miles Gloriosus” di Plauto con Ettore Bassi al debutto teatrale di Leo Gassmann in “Ubi maior”, passando per Francesca Reggiani, Alessandro Haber, Giuseppe Pambieri e Amanda Sandrelli. Otto prime nazionali su undici spettacoli, tra teatro classico e contemporaneo, in uno dei festival più longevi d’Italia.

La commedia mette in scena con grazia gioie e miserie del mondo, trasformando gli eventi in magia“, spiega Maximilian Nisi.

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Un cartellone interamente dedicato alla commedia?

C’è un fraintendimento diffuso negli ultimi anni: si pensa che la commedia debba solo far ridere. In realtà, è nata anche come denuncia sociale fin dall’antica Grecia. È la commedia di Čechov, di Beckett, non solo di Aristofane Plauto, Shakespeare o Molière. La commedia offre una visione sull’umanità a 360 gradi. Può essere sentimentale, esistenziale, ironica, satirica; commedia nera, etica. Perché la commedia riguarda la vita. Il teatro comico dà la possibilità di riflettere su temi importanti, sociali o politici. Attraverso la parodia e la satira c’è la possibilità di fare denuncia, magari velata.

Otto prime nazionali: un festival-laboratorio?

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Tradizione e innovazione devono coesistere per essere inclusivi. Il pubblico è variegato. Non si può strutturare un programma come una cena tutta a base di funghi: dopo un po’ stanca. Bisogna offrire sapori diversi.

È importante colmare le distanze, costruire ponti, affrontare temi di attualità. Si può anche lavorare sui classici attraverso traduzioni e adattamenti: abbiamo una “Bisbetica domata” adattata da Francesco Niccolini. L’obiettivo è raggiungere il pubblico più variegato e pensare a tutti i pubblici potenziali.

Come si concilia questa visione con le logiche di mercato?

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Gli spettacoli che proponiamo devono avere valore. Il teatro deve anche educare. C’è un grandissimo appiattimento culturale. Dobbiamo incentivare progetti validi e coraggiosi per ridare alle persone quell’educazione alla cultura che si è un po’ persa.

Capisco l’importanza del riscontro economico: anche il Ministero ci chiede che un festival incassi. Ma non dobbiamo perdere di vista il fine del teatro.

A cosa attribuisce la difficoltà del pubblico nel riconoscere la qualità?

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Manca l’educazione al teatro. Il pubblico non viene più formato nelle scuole, nelle famiglie. Non c’è più il teatro universitario. Il teatro ha pochissimo spazio sui quotidiani, le recensioni non esistono più.

La TV commerciale non ha aiutato, il teatro è diventato “una cosa per pochi”. Le persone cercano leggerezza ma la confondono con superficialità. Non credo ci siano spettacoli per un “pubblico più…”: c’è lo spettacolo bello e quello brutto. Il teatro non deve diventare elitario: la bellezza è universale.

Cosa pensa del sistema dei finanziamenti pubblici? È così brutto dire che il teatro è un’impresa teatrale?

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A Borgio Verezzi la nostra sopravvivenza è legata allo sbigliettamento. A noi il Ministero ha dato un punteggio alto per ottenere i finanziamenti. Ho spiegato il mio progetto e mi hanno ascoltato. Ma la responsabilità è collettiva…

Quali sono i limiti del nostro sistema di incentivi?

Il sistema teatrale italiano si trova di fronte a sfide che ne minano la sostenibilità. Serve un cambio di paradigma: una responsabilità collettiva che trasformi il teatro da semplice luogo di fruizione culturale a motore di sviluppo economico e sociale. La creazione artistica non deve limitarsi alla messa in scena, ma generare un indotto capace di sostenere spettacoli e infrastrutture nel lungo periodo.

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Il confronto con modelli internazionali evidenzia una grave lacuna: la quasi totale assenza di un equivalente del “tax credit”. L’Art Bonus, pur lodevole, ha un limite significativo: è quasi esclusivamente rivolto al patrimonio pubblico, escludendo i teatri privati che sono il cuore pulsante dell’innovazione e della ricerca artistica indipendente.

Come i mecenati furono fondamentali per Michelangelo, oggi serve un sistema strutturato di incentivi. Il mecenatismo non può più ricadere su singoli individui: serve un quadro normativo che lo incentivi a livello sistemico. Solo così riconosceremo il teatro come risorsa strategica per la crescita culturale ed economica del paese.

Il sistema premia la produzione. E la distribuzione?

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Non si può premiare solo la produzione. Ci sono state politiche che davano denaro a chi produceva tanto, anche se gli spettacoli duravano pochi giorni e non giravano. Noi attori impieghiamo tempo e fatica per imparare i testi e provare. Fare uno spettacolo che dura quattro giorni è inefficiente.

Bisognerebbe premiare la circolazione: più lo spettacolo gira e più viene riconosciuto economicamente. Questo ammortizza il prodotto e permette di raggiungere più persone nel tempo. Una giuria di esperti del settore, apartitica e competente, che ragioni secondo l’arte e non la politica, è poi fondamentale per valutare i progetti da finanziare. Le giurie, poi, dovrebbero essere formate per sorteggio tra persone di pari competenza, a rotazione.

Il suo cartellone abbraccia da Pambieri a Leo Gassman…

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Ho mescolato nomi noti come Bassi, Reggiani, Gassman, Pambieri con grandi nomi del teatro come Flavio Albanese, Elisabetta Pozzi; registi come Moni Ovadia, Arturo Cirillo. L’obiettivo è premiare la meritocrazia. Senza merito non c’è arte.

Per il Giubileo 2025 ha scelto Manzoni…

È l’unico autore che è riuscito a unire dramma, tragedia e commedia. Unisce personaggi tragici come l’Innominato, drammatici come Fra Cristoforo e comici come Don Abbondio.

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Che cosa le hanno lasciato Strehler e Ronconi?

Tutto. Strehler aveva un rispetto assoluto per il pubblico: il suo teatro arrivava ovunque, anche in Giappone. Ronconi ci ha insegnato a leggere i testi, a restituire il senso profondo della parola scritta. Se dovessi scegliere? Direi Strehler. Ma sono figlio di entrambi.

Come vede il futuro del teatro?

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Il teatro dovrebbe essere fatto per necessità, non per vanità. Il teatro è comunità: abbiamo perso il concetto dello stare insieme. I giovani mi danno speranza: è lì che ci si rende conto che il teatro è vivo.

Il potenziale delle piante non si vede in primavera, ma in inverno: quando sembrano morte, ma hanno una voglia di vita enorme. Il teatro è così: il potenziale è grandissimo, bisogna trovare il modo di aiutarlo, come un bravo giardiniere. Non morirà mai. Dobbiamo premiare il meglio, valorizzare ciò che ha valore. Siamo strumenti del teatro: quando non ci saremo più, il teatro esisterà ancora.

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