Da un lapsus napoletano nasce Malincòmio
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Da un lapsus napoletano nasce Malincòmio

Il canto lacerato di PierGiuseppe Di Tanno debutta in prima nazionale al festival Terreni Creativi di Albenga

Malincòmio di PierGiuseppe Di Tanno - ph Luca del Pia - recensione di Alessia de Antoniis
Malincòmio di PierGiuseppe Di Tanno - ph Luca del Pia - Festival Terreni Creativi
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

3 Agosto 2025 - 12.22


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di Alessia de Antoniis

Giordana, ospite di un dormitorio napoletano, un giorno gridò: “Questo posto è un Malincòmio!”.
È lì che nasce la parola storta da cui parte tutto. Un errore, un inciampo. E, come spesso accade nella poesia, il fraintendimento è rivelazione.

PierGiuseppe Di Tanno accoglie quel lapsus e ne fa detonatore di un viaggio performativo che sta a metà tra flusso poetico, monologo spezzato e rituale minimo. Malincòmio è il titolo del suo libro (Collana Isola) e il suo debutto in prima nazionale al festival Terreni Creativi di Albenga.

In scena è a torso scoperto, pantaloni neri, lunghi guanti viola di velluto fino al gomito. Vulnerabile, costretto a reggere l’urto delle parole. Tre microfoni lo accerchiano, lui parla di ¾, senza mai cercare lo sguardo del pubblico. È una scelta che costruisce distanza e insieme fragilità. Perché la voce, ben recitata, mai traboccante, resta dentro un registro senza pathos, come chi racconta un sogno troppe volte ripetuto. Il suono non commuove, non coinvolge. Eppure, lo scarto tra parola e voce, tra scena e azione, è forse proprio il tema di Malincòmio.

Il testo, vertiginoso, surreale, grondante immagini, nasce da una trascrizione poetica fedele: “mi dispera questo stare senza corpo”, “una gola sbriciolata”, “pulpito santo, perenne bestemmiare”, “io ti sfilo le mutande”… È teatro? È poesia sonora? Una recita privata che ha trovato una fessura e si lascia guardare?

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La scena resta muta: un volto proiettato gigante, occhi sbarrati sul fondo. Le luci: chirurgiche. L’ambiente sonoro: rarefatto. Nulla sembra accadere, eppure tutto vibra: nel corpo che resiste, nella lingua che inciampa, nella posizione che non cambia mai. Come se anche la regia fosse affetta dalla stessa condizione: la malinconia come forma fissa del mondo.

Non c’è drammaturgia nel senso classico, ma una partitura di rotture e torsioni, un canto lacerato dove l’attore è anche vittima, testimone e sacerdote. La narrazione non si sviluppa: si avvolge su sé stessa, come un incubo lucido o una preghiera impossibile.

Il pubblico resta in ascolto, quasi trattenendo il fiato. Malincòmio scava, si lascia attraversare, poi si ritira. Non offre appigli, non costruisce una climax, non consola. È un canto stanco e bellissimo, che cade addosso come un sogno sporco. E ci lascia lì, nel silenzio da cui è venuto.

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