Al festival Terreni Creativi di Albenga, Mattia Cason assume la basilica paleocristiana come fondamento simbolico di un crocevia temporale dove danza, storia e visione politica si fondono in un dispositivo teatrale di straordinaria complessità intellettuale.
Non è teatro nel senso convenzionale del termine quello che Mattia Cason porta in scena con Aquilee. È piuttosto un’operazione di archeologia poetica, dove il corpo del danzatore diventa strumento di scavo nelle stratificazioni della memoria europea. Sui mosaici della basilica di Aquileia, trasformati in firmamento scenico – sebbene difficilmente leggibili dalla platea – prende forma un solo che è insieme danza, meditazione storica e manifesto politico.
Il progetto nasce da un’intuizione potente: utilizzare Aquileia come paradigma dell’Europa contemporanea, leggendo nella sua storia millenaria di crocevia culturale una chiave per ripensare l’identità del continente. Ma Cason non si limita alla ricostruzione filologica. Attraverso la figura di Pasolini, costruisce un discorso che dall’antichità interroga con urgenza il presente.
La drammaturgia procede per accumulo di riferimenti e sovrapposizioni temporali. Alessandria emerge come trauma originario: la città fondata da Alessandro Magno dopo la distruzione di Tiro e Tebe diventa simbolo di quella violenza fondativa che caratterizza ogni civilizzazione. Qui abitano le figure di Ipazia e di Filone l’Ebreo, filosofi del confine tra pensiero e fede, mentre la danza si carica di una memoria trattenuta, fatta di tremori e resistenze.
Aquileia rappresenta la soglia, il punto di frattura dell’Impero dove l’alterità irrompe sotto forma di una maschera straniante che porta con sé tutto ciò che l’Occidente ha escluso. Il corpo si piega e si contorce, interrogando una terra che conserva le tracce di millenni di ibridazioni culturali.
Europa, infine, non è destinazione ma invocazione. Il corpo si spoglia di ogni gesto superfluo, raggiungendo una nuda vulnerabilità che apre alla possibilità. L’Europa che Aquilee suggerisce non ha confini ma margini, non ha un centro ma un’eco molteplice, non una voce sola ma un ascolto plurale.
La scelta di vestire il danzatore come Pasolini in visita alla città nel 1957, non è nostalgica ma strategica. Il poeta diventa il filtro critico attraverso cui attualizzare la scandalosa forza rivoluzionaria del passato, trasformando il porto fluviale romano in laboratorio per ripensare un’Europa “afroasiatica”, meticcia, fondata non sulla purezza delle origini ma sulla fertilità delle contaminazioni. Parole proiettate, come ad esempio Potenza, Grazia, Chi non danza non capisce cosa succede, non spiegano ma orientano, creando un campo semantico dove antico e contemporaneo si sovrappongono. La citazione dagli Acta Johannis diventa chiave di lettura: la comprensione passa attraverso il corpo, attraverso il movimento, attraverso una partecipazione che precede l’analisi.
Aquilee sfida deliberatamente la comprensione immediata. Cason costruisce un dispositivo che agisce per altre vie, stimolando reazioni e sensazioni prima ancora che interpretazioni. È un teatro dell’intuizione che rifiuta la didascalia per abbracciare l’evocazione, trasformando lo spettatore in viaggiatore di un sentiero tracciato sulla sabbia della memoria. La collaborazione con Ahmad Kullab, le luci di Jaka Šimenc, le proiezioni di Omar Ismaili e i costumi firmati da Primož Klinc, Chiara Defant e Vladimir Vodeb completano un dispositivo scenico in cui ogni elemento concorre a creare un’esperienza sensoriale, in cui il significato emerge dall’attraversamento più che dalla decodifica.
In un momento storico in cui l’Europa fatica a riconoscere le proprie fratture, e tenta invano di costruirsi come fortezza più che come orizzonte, Aquilee compie un gesto insieme poetico e politico: propone una genealogia alternativa del continente, non fondata sull’esclusione ma sul riconoscimento delle proprie radici plurali. Dalle influenze etiopiche e mesopotamiche su Alessandria fino al culto di Iside ad Aquileia, emerge il ritratto di un’Europa che è sempre stata altro da sé, sempre in movimento, sempre in trasformazione.
Il finale è una sospensione più che una conclusione, e lascia aperta la domanda fondamentale: quale Europa vogliamo essere? La risposta, suggerisce Cason, non può venire solo dalla ragione, ma deve passare attraverso il corpo, attraverso la danza (Chi non danza non capisce cosa succede), attraverso quella comprensione profonda che nasce quando si accetta di non capire tutto subito.
Aquilee è un teatro d’arte che non teme la complessità, che non scende a compromessi con l’immediatezza del consumo culturale, che chiede al pubblico un atto di fiducia e di abbandono. È il tipo di teatro di cui l’Europa ha bisogno: coraggioso nell’affrontare le proprie contraddizioni, generoso nell’aprirsi all’alterità, poetico nel trasformare la storia in visione. Un’Europa dove la maschera primordiale rientra in scena, si spoglia, e appare un danzatore nero. Un’Europa dove radici bianche (Mattia Cason) e nere (Ruben Gombač – sloveno nato in Ghana)danzano insieme. Un’Europa che da sempre è un crocevia di cultura e civiltà. Non il centro del mondo, ma il fuoco alchemico in cui le differenze non si annullano, ma si fondono per generare nuova materia.