“Da Francesco a Leone” (EDB, Euro 14,50) è l’ultimo libro di padre Antonio Spadaro, un testo breve, leggibilissimo, che si articola in numerosi capitoli per presentarci prima i tratti salienti dell’eredità che ci lascia Francesco e poi illustraci come Leone ci ha fatto capire che proseguirà questo cammino. Non è un instant-book, ma una preziosa sintesi divulgativa che in poche pagine sa riassumere temi decisivi per l’oggi, perché è oggi che dobbiamo capire Leone in relazione a Francesco, prima che la storia di questo pontificato ci offra col tempo altre risposte. Sbagliare il modo con cui ci poniamo ai blocchi di partenza potrebbe fuorviarci, e molti ci stanno provando, presentandoci un Leone in discontinuità con quel Francesco che ha avuto nel pluralismo, nell’anticlericalismo, nell’apertura e “nel primato del cuore” tratti decisivi. La continuità non sarà su tutto, ma su questi punti cruciali?
Mentre diversi mezzi di comunicazioni di massa ed alcuni ecclesiastici, vecchi e giovani, ci dicono di no, ricorrendo soprattutto a tratti certamente importanti, come il ritorno di Leone a quel rosso ereditato dall’imperatore romano e che Francesco aveva eliminato, preferendo la semplice, candida veste, rifiutando orpelli imperiali, Spadaro guardando dentro i discorsi del primo papa americano trova la traccia decisiva della continuità in un parola che cambia molto, molto più di quanto a prima vista si possa pensare: questa parola è “inquietudine”. Se avesse ragione vorrebbe dire che anche quello di Leone sarà un pontificato inquieto, cioè non predefinito. Il papa un tempo era il “signore dei signori”, sintagma che lascia poco spazio all’inquietudine: ora? Per Francesco non si trattava di gestire uno spazio, ma di dar vita a una Chiesa-ospedale da campo, che si prendesse cura di tutte le nostre ferite. A un uomo che boccheggia per strada, il capo rigato dal sangue, non ci si accosta andando prima a verificare con analisi accurate se abbia i trigliceridi alti. Per questo vedeva la sua Chiesa in uscita come un ospedale da campo. Papa Prevost ha parlato di Chiesa missionaria, quindi in uscita, non arroccata, chiusa dentro il suo fortino, poi ha detto “Chiesa estroversa”. Non sarà dunque anch’essa una chiesa inquieta, che vive nella storia, senza ritenersi giudice al di là e al di sopra della storia?
Prima di vedere come Spadaro ci porti per mano con linguaggio piano e scorrevole dentro questo tratto d’unione tra i due pontificati mi sono ricordato che Francesco ha tessuto l’elogio dell’inquietudine, ma collegandola all’incompletezza, cioè alla necessaria consapevolezza che il nostro pensiero è incompleto, e all’immaginazione: le ha chiamate le sue “tre i”. Così la prima domanda che mi sono posto prima di leggere è stata molto semplice: per Francesco l’inquietudine ha un primato sulla due altre “i”, incompletezza e immaginazione? Dopo un bel po’ di tempo sono arrivato a pensare che probabilmente è così, perché la consapevolezza dell’incompletezza del nostro pensiero potrebbe scadere in un banale relativismo, e l’immaginazione potrebbe limitarsi all’ordinario, non essere l’immaginazione che sa “spalancare visione ampie anche in spazi ristretti”, come disse Francesco, se non seguissero (principalmente) la necessaria inquietudine. E’ il cuore che comanda, che dà input decisivi anche al nostro cervello… Così ho proseguito nella lettura con vero interesse perché sarebbe un nesso non importante, bensì decisivo. La prima indicazione che il volume ci dà è che Leone si è riferito da subito all’inquietudine: nella sua prima omelia, quella che ha segnato l’inizio del suo pontificato si constata facilmente che Leone ha usato tre volte il vocabolo “inquietudine”.
Dapprima riferendosi alla sua elezione: «arrivando da storie e strade diverse, abbiamo posto nelle mani di Dio il desiderio di eleggere il nuovo successore di Pietro, il Vescovo di Roma, un pastore capace di custodire il ricco patrimonio della fede cristiana e, al contempo, di gettare lo sguardo lontano, per andare incontro alle domande, alle inquietudini e alle sfide di oggi». Più avanti torna sull’ inquietudine: «In questo nostro tempo, vediamo ancora troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri. E noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità, di comunione, di fraternità. Noi vogliamo dire al mondo, con umiltà e con gioia: guardate a Cristo! Avvicinatevi a Lui! Accogliete la sua Parola che illumina e consola! Ascoltate la sua proposta di amore per diventare la sua unica famiglia: nell’unico Cristo noi siamo uno. E questa è la strada da fare insieme, tra di noi ma anche con le Chiese cristiane sorelle, con coloro che percorrono altri cammini religiosi, con chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per costruire un mondo nuovo in cui regni la pace». Parlare di strada da fare insieme non indica annessionismo e l’inquietudine di chi ricerca di Dio è rispettata, accolta dalla Chiesa missionaria, cioè la Chiesa che lui auspica e che più avanti diviene protagonista dell’inquietudine, nella terza citazione: «una Chiesa missionaria, che apre le braccia al mondo, che annuncia la Parola, che si lascia inquietare dalla storia, e che diventa lievito di concordia per l’umanità».
Si potrebbe ancora obiettare che l’inquietudine, cardine bergogliano senza il quale tutto precipiterebbe, non sia presentata proprio come cardine umano da Leone. Ma mentre leggevo “Da Francesco a Leone” e mi ponevo questa domanda forse eccessiva, prevenuta, sui social di padre Spadaro ho trovato, a differenza di quanto fatto da tanti media, questa frase pronunciata da Leone nel suo recentissimo incontro con i giovani: «non allarmiamoci allora se ci troviamo interiormente assetati, inquieti, incompiuti (ecco dunque anche l’incompiutezza bergogliana) desiderosi di senso di futuro. Non siamo malati, siamo vivi!» Così tutto è a posto. Chi vede tutto fissato per sempre e dunque propone una Chiesa giudice eterno, senza domande, può considerare questa inquietudine? Qui si definisce uno dei pensieri rigidi, rigidità che la carne umana però conosce solo da morta.
A questo punto è utile discostarsi dal percorso del volume e correre alle pagine dove si parla del pluralismo. Per me inquietudine e pluralismo sono punti dello stesso discorso. Il piccolo volume di Spadaro consente di cogliere che i linguaggi sono diversi, Francesco aveva un linguaggio poetico, Leone di meno, ma l’inquietudine non può che condurre al pluralismo. Una delle grandi preoccupazioni di questo tempo è a mio avviso il post-liberalismo cristiano, che vorrebbe uno Stato che riconosce «la verità religiosa e orientarsi verso un bene comune oggettivo, che non può prescindere dalla legge morale e dalla tradizione cristiana». Presentandoci le tesi di alcuni esponenti di questo pensiero, Spadaro ci dice che secondo questa prospettiva «la democrazia rappresentativa non è più considerata una necessità. Lo Stato dovrebbe avere la facoltà di indirizzare la vita pubblica verso valori oggettivi, anche se ciò comporta una riduzione della libertà individuale» e di lì a breve desume: «E’ la vecchia tentazione già vista in Europa negli anni Trenta, quando parte del cattolicesimo europeo si lasciò attrarre da regimi autoritari che esaltavano la religione come collante indennitario: “Dio, patria, famiglia”. Oggi il rischio si ripresenta nella forma di un cattolicesimo funzionale a un progetto politico e nazionale, piuttosto che fedele alla sua vocazione universale e profetica.» Siamo al cuore dell’oggi.
Del liberalismo Spadaro ricorda che in tempi passati « sembrava offrire garanzie di libertà, prosperità e rispetto reciproco», oggi viene citato come causa di solitudine, disgregazione sciale, indebolimento dei legami comunitari, e, soprattutto, una progressiva marginalizzazione della religione nello spazio pubblico. Così sul tavolo di Leone -che è anche il primo papa americano arrivato poi nel tempo trumpiano- si trovano le domande cruciali che erano su quello di Francesco: «qual è il ruolo della religione nel spazio pubblico? Come si costruisce il bene comune in un mondo pluralista?»
Se la spiegazione della risposta bergogliana affascina («ha risposto circumnavigando le periferie dell’Europa e del mondo – dall’Amazzonia alla Mongolia- alla ricerca di una risposta e poi portando quei confini a Roma con i suoi sinodi e concistori») l’indicazione della risposta di Prevost è che lui sa che questo è un nodo del suo pontificato ed ha un nome: Dignitatis Humanae , la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa. « Per molti postliberali è un cedimento al relativismo. Difendere oggi quella dichiarazione significa riconoscere che la libertà è la condizione della fede autentica.» La difenderà? L’ha già fatto! Nel suo discorso alla fondazione Centesimus Annus Prevost ha dichiarato che la chiesa «non vuole alzare la bandiera del possesso della verità, né in merito all’analisi dei problemi, né alla loro risoluzione. […] L’indottrinamento è immorale, impedisce il giudizio critico, attenta alla sacra libertà della propria coscienza – anche se erronea- e si chiude a nuove riflessioni perché rifiuta il movimento, il cambiamento o l’evoluzione delle idee di fronte a nuovi problemi». E’ un no oggi decisivo: no alla coercizione, all’ egemonia. La chiesa non può risolvere i problemi di un liberalismo esausto, ma può respingere l’abbraccio del postliberalismo autoritario. Il capitolo si conclude qui, ma per me prosegue in uno che lo procede di molto: “La vera sfida non è l’unità ma la diversità”.
Lo precede perché qui Spadaro parla dell’eredità di Francesco, che al riguardo però echeggia in quell’accenno già riferito di papa Leone ai cardinali: « arrivando da storie e strade diverse, abbiamo posto nelle mani di Dio il desiderio di eleggere il nuovo successore di Pietro, il Vescovo di Roma, un pastore capace di custodire il ricco patrimonio della fede cristiana e, al contempo, di gettare lo sguardo lontano, per andare incontro alle domande, alle inquietudini e alle sfide di oggi.»
Questo bisogno di diversità riconosciuta, apprezzata, necessaria, naturale, lo ritroviamo in un suo celebre accenno su alcune priorità che potranno non corrispondere in due chiese molto distanti nel mondo. In queste pagine Spadaro propone l’idea di pluralismo ancorata al ruolo dello Spirito Santo: «le differenze sono una caratteristica della società globale, una condizione strutturale. Pretendere che la chiesa- come qualsiasi realtà collettiva- si esprima in modo uniforme e monocorde, significa ignorare questa trasformazione. La coesione non può essere cercata nell’uniformità, ma nella capacità di accogliere e armonizzare il molteplice. Bergoglio ha inteso l’istituzione ecclesiale come un’armonia che si forma costantemente dal disordine delle diversità e dei contrasti, sapendo che sia il disordine sia l’armonia sono suscitati dallo stesso Spirito Santo, e che entrambi hanno un profondo valore spirituale. Lo Spirito non impone l’omologazione, ma armonizza e accorda le differenze. L’unità della Chiesa dunque è il frutto della libertà dello Spirito, che opera nella storia e nelle coscienze.»
Dunque l’unità non si realizza «evitando i conflitti, ma attraversandoli con uno sguardo profondo. […] La vera unità nasce dalla riconciliazione, della quale abbiamo un immenso bisogno. Non è la negazione delle diversità, ma la sua trasformazione in comunione.» Così Spadaro sorprende il lettore perché afferma che questa chiesa sarebbe luogo dove imparare che la convivenza non è assenza di conflitti, ma arte paziente di riconoscerli, accoglierli e trasformarli. Siamo al rifiuto del regime di cristianità.
Ma questo non basta a chiudere una breve prefazione di un libro che smonta i miti di quanti grazie a mozzette e altri indumenti ( e anche altre differenze) vorrebbero raffigurare un Leone in rottura con il suo predecessore. Lo dice, a mio avviso, lui stesso, non tanto per i collegamenti sulle così importanti priorità per i poveri e la pace, che non sorprendono anche se non scontate, ma con una citazione che prendo dal colloquio di Prevost con dei parrocchiani che lo hanno invitato nella loro parrocchia dell’Illinois nel 2024 e che conclude come appendice il volume. Riferisce l’allora cardinale Prevost che un tratto fondamentale della visione, dello stile di Francesco era criticato da molti, anche duramente: «dovrebbe parlare in modo più deciso su questo e condannare questo o quello. Papa Francesco dice a tutti: “abbiamo già molte persone che condannano, non abbiamo bisogno di questo. Abbiamo bisogni di persone, e soprattutto di ministri, che possano vivere ed esprimere e offrire agli altri la misericordia, il perdono e la guarigione di Dio. E’ di questo che si tratta”, dice. E se solo riuscissimo a capire che Francesco è esattamente questo». Già…
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