Chiacchierare con Ozzy Osbourne tra empietà e rock: il libro-raccolta che ne racconta la voce senza filtri

Parola di Ozzy di Harry Shaw raccoglie frasi e interviste di Osbourne: un ritratto diretto, ironico e teatrale della sua carriera e personalità.

Chiacchierare con Ozzy Osbourne tra empietà e rock: il libro-raccolta che ne racconta la voce senza filtri
Ozzy Osbourne
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7 Agosto 2025 - 16.00


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di Rock Reynolds

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Le religioni si nutrono di riti. Il paganesimo non fa eccezione. Il rock’n’roll, forse la massima espressione moderna del culto dionisiaco, adora simboli e cerimoniali. Se non sapessimo che raramente l’individuo è in grado di guidare il proprio destino, avremmo la tentazione di ascrivere la scomparsa di Ozzy Osbourne a uno scherzetto dei bizzosi inquilini dell’Olimpo del rock, da lui invocati: Ozzy ha fatto in tempo ad accommiatarsi dal suo pubblico adorante e dal mondo intero sul palco, l’unico luogo in cui si sia mai realmente sentito a proprio agio e abbia esorcizzato i demoni che si agitavano in lui dall’infanzia. Il cuore ormai fragilissimo di Ozzy si è fermato meno di tre settimane dopo l’ultimo concerto nella sua città, Birmingham, un evento globale con una ridda di superospiti, culminato nella reunion finale dei Black Sabbath, la band a cui in molti attribuiscono la paternità dell’heavy metal e con cui a più riprese Ozzy aveva giurato che non si sarebbe mai più esibito.

Proprio a Birmingham Ozzy aveva mosso i primi passi, prima di entrare a far parte dei Black Sabbath, “la messa nera”, un quartetto assolutamente fuori dagli schemi, inizialmente poco più che un gruppetto del liceo, formato insieme a Tony Iommi (chitarra), Geezer Butler (basso) e Bill Ward (batteria) nel 1968, per intenderci l’anno in cui i Beatles pubblicarono The Beatles (che tutti conoscono come White Album), Jimi Hendrix diede alle stampe il disco doppio Electric Ladyland e i Rolling Stones Beggars Banquet.

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Sgombriamo il campo da equivoci. Malgrado un’iconografia che strizza smaccatamente l’occhio a satanismo, riti orgiastici ed esoterismo lisergico, nella strana miscela rock dei Black Sabbath non ci sono credenze nere e domina, semmai, una genuinità creativa che li ha tenuti a galla per decenni: una granitica sezione ritmica, riff di chitarra pesantissimi e cupi all’inverosimile su cui si va a incastonare una delle voci più improbabili nel panorama rock del tempo. Sottile, a tratti stridulo, addirittura ghignante, il tono di Ozzy è inconfondibile: non c’è il pathos del blues britannico tanto in voga in quegli anni e tanto amato dai Sabbath e non c’è nemmeno l’intrigo delle armonie vocali lanciata da Beatles ed epigoni, c’è invece la naturalezza di chi non avrebbe saputo e nemmeno voluto cantare diversamente, preferendo all’emotività di derivazione afroamericana una vocalità da vaudeville. Per non dire nulla del campionario di pose teatrali da avanspettacolo che hanno rappresentato il bauletto dei trucchi di Ozzy per una cinquantina d’anni.

Parola di Ozzy (Tsunami edizioni, traduzione di Massimo Baroni, pagg 128, euro 15) di Harry Shaw raccoglie una serie di pensieri in libertà del cantante, spezzoni di interviste concesse nel corso del tempo, fin dagli esordi. Parola di Ozzy non è un libro nuovo bensì una ristampa e questo è il suo limite principale, dato che le interviste si fermano alle soglie degli anni 2000. Sappiamo che nel frattempo sono successe parecchie cose, a partire (o per finire, se preferite) dal concerto di addio del 5 luglio 2025. Per il resto, questo strano libro – strano in quanto l’autore è un mero selezionatore di frasi e non aggiunge una sola parola ai pensieri di Ozzy – è godibilissimo, nonostante non vi sia un filo conduttore oltre alla titolazione dei capitoli. Ma, quando si finisce di scorrerne le pagine corredate da foto pittoresche quanto il soggetto ch ritraggono, si ha la forte sensazione di aver fatto una chiacchierata con Ozzy stesso. Una chiacchierata priva di filtri, all’insegna di quel campionario variegato di empietà che ha corroborato il successo del grande istrione rock di Birmingham.

Sappiamo bene che il finale di questa storia non è felice: Ozzy non c’è più. Ma il mondo intero – per lo meno il nutrito universo dei suoi fan che non gli ha voltato le spalle neppure nei momenti meno edificanti della sua altalenante carriera – ha la sensazione che Ozzy abbia atteso di togliere il disturbo per poter ancora una volta salire sul palco e fare un ultimo valzer, un ultimo giro di giostra, se non per bere il bicchiere della staffa a lui – che di alcol era quasi morto un sacco di volte – vietatissimo.

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Tra queste pagine troverete, ostentata con un misto di orgoglio da sopravvissuto e di malcelato pudore, la triade dell’edonismo moderno: sesso, droga e rock’n’roll. In verità, il rock’n’roll è sempre più ai margini delle preferenze dei giovani, ma dischi splendidi (quanto fuori dagli schemi dell’epoca) come Black Sabbath (1970), Paranoid e Master of Reality (1971) restano la testimonianza di un sound che in molti hanno tentato di ricreare e qualcuno è solo riuscito a scimmiottare.

Eppure, i Black Sabbath sono l’ennesima band nata nei corridoi di una scuola superiore, nella sonnecchiosa Birmingham. Ozzy era uno sfigatello, un piantagrane rozzo e goffo che non stava simpatico a molti, comunque non a quelli che sarebbero diventati suoi compagni in una delle band di rock duro più seminali. Di lui, Tony Iommi ebbe a dire, «Non lo sopportavo per niente, e ogni volta che lo incontravo lo riempivo di botte». Da piantagrane impacciato che combinava guai nei corridoio della scuola a star della televisione (con la fortunatissima serie The Osbournes) che si siede a tavola con il presidente degli Stati Uniti, George Bush, ne passa. Nemmeno lui avrebbe mai creduto che George W snocciolasse le sue canzoni preferite dei Sabbath: «Non l’avresti mai detto!».

Ozzy, si sa, non è mai stato il prototipo del bravo ragazzo. Considerato un teppistello, forse perché cresciuto in seno a una famiglia operaia dominata dalla figura del padre alcolista, ha mostrato fin da piccolo un pericoloso deficit di attenzione, una propensione malsana a combinare pasticci e, in un secondo momento, ad attaccarsi a sua volta alla bottiglia e a non disdegnare altre forme di sballo. Le groupie a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta erano la quasi quotidianità per ogni rock band degna di tal nome. «All’inizio le groupie sono un gran divertimento, ma dopo un po’ diventa… stancante… Passo ai miei roadie tutti i bigliettini delle tipe.. Il loro bus è come un cazzo di harem itinerante…»

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Eppure, fino a qualche settimana fa, c’era ancora qualcuno a cui interessava unicamente sapere se era vero che quella volta famosa sul palco Ozzy aveva staccato la testa di un pipistrello a morsi: era talmente strafatto da non capire nemmeno che non si trattava di un animaletto di peluche e, comunque, in quelle condizioni non avrebbe fatto la minima differenza. Il disincanto con cui Ozzy parla della sua timidezza, del suo alcolismo senza freni e dell’incapacità di rinunciare alle lusinghe facili del rock’n’roll fa una certa tenerezza.

«Non ho mai pensato di essere un figo. Non cerco nemmeno di esserlo… Ho visto degli idioti che volevano essere fighi che facevano delle figure di merda pazzesche… C’è anche da dire che pure io ho fatto delle figuracce del cazzo, e ben più di una volta. Ma me la sono cavata lo stesso perché ero Ozzy Osbourne e questo mi dava il permesso di essere un coglione.»

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