L’Italia è la mia seconda casa: in ricordo di Terence Stamp
Top

L’Italia è la mia seconda casa: in ricordo di Terence Stamp

Terence Stamp, leggendario attore britannico, è scomparso ieri all’età di 87 anni, lasciando un vuoto profondo nel mondo del cinema

L’Italia è la mia seconda casa: in ricordo di Terence Stamp
Terence Stamp
Preroll

Marco Spagnoli Modifica articolo

20 Agosto 2025 - 12.52


ATF

Terence Stamp, leggendario attore britannico, è scomparso ieri all’età di 87 anni, lasciando un vuoto profondo nel mondo del cinema. Celebre per il ruolo del Generale Zod in Superman e per le sue collaborazioni con registi come Pasolini e Fellini, ha incarnato per oltre sei decenni un’icona di stile e intensità. Il suo sguardo magnetico e la sua recitazione anticonformista hanno segnato film indimenticabili come Billy Budd, Teorema e Priscilla, la regina del deserto.. Con lui se ne va una figura unica, ma la sua eredità continuerà a brillare sul grande schermo che noi vogliamo ricordare in occasione di questa intervista di venticinque anni fa per presentare in Italia, L’inglese di Steven Soderbergh. 

L’inglese diretto da Steven Soderberg ha indubbiamente un grande merito artistico e sperimentale, per cui verrà ricordato per sempre negli annali della cinematografia. Quello di fornire due visioni diverse dello stesso uomo e attore: Terence Stamp. Un interprete che anni può dire di avere lavorato con alcuni tra i più grandi registi della storia del cinema e – al tempo stesso – di essersi divertito molto saltabeccando da produzioni indipendenti a film hollywoodiani ad alto budget, da pellicole di qualità a prodotti commerciali non particolarmente riusciti. Nato a Stepney vicino Londra nel luglio del 1939 come Michael Cainee altri della sua generazione è stato abbastanza fortunato ad iniziare a recitare quando un accento affettato non era più considerato di rigore per gli attori britannici di cinema e di teatro.

I suoi primi film rivelarono le sue qualità. E deve essere strano per un attore che ha passato quaranta anni della sua vita sui set di tutto il mondo vedersi in un’unica pellicola a due età diverse e distanti. Per raccontare il passato del suo personaggio, Wilson il killer inglese andato a Los Angeles per vendicare la morte della figlia, Soderbergh ha utilizzato, infatti, spezzoni di Poor Cow di Ken Loach (1968) in cui Stamp aveva lo stesso ruolo. Un sequel di un personaggio e non di un film. Ma quali sono le visioni che Stamp offre di sé al pubblico? Il raffinato autore di libri di cucina, il romanziere, l’attore smaliziato in pellicole miliardarie come Guerre Stellari – Episodio I, Bowfinger e Superman e contemporaneamente l’interprete coscienzioso per Fellini, Pasolini, Michael Cimino. Nessuna contraddizione. Solo scelte cristalline e fortemente volute che l’attore non ha difficoltà a spiegare in prima persona, tirando le fila di quel nastro rosso che unisce una cinquantina di film.

Lei ha sempre voluto interpretare ruoli estremi di buono o di cattivo. Ma lei – come attore – partecipa anche a un cinema estremo: o mega produzioni hollywoodiane o piccoli e raffinati film indipendenti. qual è la differenza principale tra questi due tipi di cinematografia?

Credo che la grande differenza stia nel fatto che nel cinema indipendente uno avverte un forte input artistico e creativo. Inoltre, nei film indipendenti tu non hai cinque produttori diversi che ti dicono quali cambiamenti pretendono nella sceneggiatura. I registi non sono come Steve Soderbergh che ha assolutamente i pieni poteri e si è scelto uno dopo l’altro i migliori collaboratori con i quali potesse lavorare. Il cinema indipendente consente di fare delle forti esperienze artistiche. Nelle grandi produzioni hollywoodiane, invece, molti non sanno nulla del cinema in quanto tale, ma ne parlano solo in termini di budget. Ti comunicano le loro strampalate idee creative e tu – poiché ti pagano – sei costretto a starli a sentire. Questa è la vera differenza!

E’ sempre così?

No, affatto. Uno può fare anche dei film interessanti come Bowfinger scritti da Steve Martin e diretti da Frank Oz. Così abbiamo artisti importantissimi anche in pellicole hollywoodiane. 

Recitando in tutte le parti del mondo…

Amo molto viaggiare. Ho sempre amato farlo. E’ molto “rinfrescante” stare in un posto e conoscere persone. Apprezzi il luogo, le sue bellezze, la sua cucina. L’importante è che siano set reali e non virtuali. Del resto le nuove esperienze ti danno sempre la carica e questo è fondamentale per un uomo e un attore.

L’Italia è una nazione in cui è tornato più volte. Qual è il suo ricordo di Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini?

Per tanti versi l’Italia è quasi la mia seconda casa. Non parlo bene la vostra lingua, ma spesso arriva a capire perfettamente quello che mi viene detto. Fellini e Pasolini hanno significato molto per me e la mia carriera. Due maestri di cui si sentirà per sempre la mancanza. Quando negli anni Sessanta ho iniziato a lavorare come attore l’industria cinematografica era piena di registi che erano anche dei grandi artisti. Il loro numero superava di gran lunga i ‘contabili’ con cui abbiamo a che fare adesso. Il cinema di quell’epoca era molto sano. Facendo un paragone con il cibo, mentre una volta si mangiava in trattoria, adesso il cinema è diventato un po’fast food. Ci saranno sempre dei grandi artisti, ma non ce ne saranno probabilmente più come Fellini e Pasolini.

Leggi anche:  Bandidos e Balentes: il sequel del film premiato a New York verrà girato la prossima primavera

Cosa pensa di Steven Soderbergh?

Nel suo cuore è un cineasta indipendente, ma sa anche bene che deve fare film all’interno dello Studio System se vuole andare avanti. Del resto lui è uno che pur lavorando per Hollywood non ha mai compromesso l’integrità del suo lavoro. 

Come si è trovato a lavorare con Peter Fonda?

Avevamo fatto lo stesso film a episodi Tre passi nel delirio, ma non ci eravamo mai incontrati se non di sfuggita a Taormina nel 1968. E’ un attore straordinario. 

L’inglese è un film per molti versi affascinante. Lei si è trovato a riprendere lo stesso ruolo che aveva in Poor Cow di Ken Loach da cui sono stati estratti pezzi in bianco e nero per rendere cinematograficamente il background del suo personaggio. Quasi un sequel di una vita, ma non di un film…

E’ stato molto inusuale. Ho dovuto rivedere Poor Cow e ricordarmi tutto il lavoro che avevo fatto per quel personaggio e riviverlo dentro di me. Ho dovuto cucirlo, invecchiato, all’uomo che sono ora e immaginare per lui come il trascorrere del tempo l’avesse cambiato. Potevo immaginare quello che era rimasto immutato, ma dovevo soprattutto sforzarmi di capire in che cosa sarebbe stato differente. 

Un inglese in America. Un killer in cerca della vendetta della morte della figlia. Un ruolo quasi da siciliano e non britannico…

La migliore vendetta è quella servita fredda. Lui ha avuto tanto tempo per pensare a questo. E’ in prigione, solo, non sa a chi parlare, ma sa anche che non appena uscirà da lì si vendicherà. E’ anche un uomo colpevole di quello che ha fatto a sua figlia. La sua coscienza è repressa. Un sentimento molto britannico o giapponese. Quando Wilson arriva a Los Angeles deve continuare a reprimersi per non esplodere. 

La cosa più divertente degli americani e degli inglesi è che come dicevaGeorge Bernard Show questi sono due popoli divisi dalla stessa lingua. Nessuno capisce quello che Wilson dice a Los Angeles, urla più forte cercando di farsi capire. Un personaggio tragicomico. Per fare questo mi sono ispirato a molti inglesi che ho incontrato in tutto il mondo.

Quali sono le differenze tra il cinema europeo e quello americano. Lei crede che la cinematografia del Vecchio Continente dovrebbe ergersi a difesa di un certo modo di fare film?

No, sarebbe sbagliato. In Europa o in America i set non cambiano. Non importa dove sono o quello che faccio io mi comporto sempre alla stessa maniera. Se, però, vuoi fare film con grossi budgets non hai scelta e devi andare a Hollywood. Almeno per trovare i soldi e poi tornare come ha fatto Besson per Giovanna d’Arco. Luc Besson è sempre stato un grande cineasta europeo, ma non si faccia troppe illusioni: tutto quello che Besson ha sempre voluto era diventare un grande cineasta hollywoodiano. 

Pochi registi sanno tornare a piccoli film dopo avere assaggiato i soldi delle major. Questa è stata la tragedia che ha colpito il cinema di David Lean o di Stanley Kubrick. Non sapevano tornare a lavorare con piccoli budgets . Per questo rispetto moltissimo cineasti come Sodebergh o Stephen Frears. Non hanno nessun timore di tornare al passato. 

A cosa è legato tutto questo?

All’idea di libertà di esprimere la propria visione delle cose. Quando ho girato Priscilla per esempio le cose sono andate in una maniera molto strana. Un giorno viene da me Stephan Elliott e mi chiede di girare quel film. Io gli dico che la sceneggiatura mi piace, ma che ho molta paura. Lui mi domanda come farmi passare questo timore. E io gli chiedo quanto mi può pagare e Elliott mi dice: “Molto poco…” Così, irritato gli domando: “Tu vuoi che io vada in Australia per settimane? Vuoi che mi vesta da donna? E non vuoi pagarmi…?!”. Il regista mi guarda e mi risponde: “Vuoi più soldi? Allora vado alla Polygram, glieli chiedo, ma se il film supera i tre milioni di dollari loro mi diranno cosa devo metterci e io non posso permetterlo…” In altre parole non avrebbe potuto fare un piccolo film gay e divertente. Avrebbe dovuto fare – alla fine – quello prodotto da Spielberg To Wong Fu ed è questa la differenza. Il nostro intero budget per il guardaroba del film  Priscilla , talmente di qualità che ha vinto un Oscar, costava di meno che un solo vestito indossato da Wesley Snipes in To Wong Fu!!! Ma quale film volete vedere? Quello dove non puoi dire parolacce, dove non puoi fare nulla di politicamente non corretto o volete vedere Priscilla? Un cineasta indipendente è come Van Gogh. Sanno mettere la loro visione in un film e non sono come quei quadri costruiti di Andy Wahrol… Non è come George Lucas che fa film solo per vendere dei giocattoli. 

Leggi anche:  Guillermo del Toro porta il suo "Frankenstein" a Venezia

Qual è il suo sogno, adesso?

Lavorare con Steven Spielberg per il resto della mia vita. Sarei felicissimo…ma non è così. Ho fatto tre minuti in Guerre Stellari che mi sono valsi un sacco di soldi e che mi consentono di stare ad aspettare Spielberg ben vestito e con la pancia piena. 

La sua vita è divisa tra due Steven, quindi…

Spielberg non mi chiederà mai di fare un film con lui. Ma ci sono molti altri giovani autori come Soderbergh che potrebbero chiedermi di lavorare con loro…

Nella sua filmografia si nota un buco di nove anni. A cosa è dovuto?

I motivi sono privati. Posso solo dire che ho vissuto per lungo tempo in una comunità di arancioni, un hashrama Punar in India. Ero un swami e qualche volta andavo a fare colazione in un albergo chiamato Blue Diamond. Il portiere si ricordava di me sin da prima che diventassi un dami e uno swami. Si ricordava di Terence Stamp, l’attore.Un giorno mi chiama e mi dice che è arrivato un telegramma per me. Stampato su un foglio vecchio modello e indirizzato erroneamente a Clarence Stamp, trovo un messaggio dal mio agente che non sentivo da molti anni. Mi chiedeva se volevo venire a Londra per incontrare Richard Donner che mi proponeva due film su Superman insieme a Marlon Brando. E aggiungeva: “Sulla strada puoi fermarti a Parigi per incontrare Peter Brook?” E’ stato un miracolo che io abbia ricevuto quella comunicazione e che sia tornato a lavorare decisamente da quella che può essere definita la porta principale…

Cosa è cambiato da quegli anni riguardo la sua attitudine verso il lavoro?

Adesso desidero avere una carriera molto lunga. Sono nato in un vicinato molto povero e sono figlio della working class. Mio padre da bambino non ha mai posseduto nemmeno un paio di scarpe. Ho voluto diventare un attore, nonostante tutta la mia famiglia mi fosse contro. Mio padre voleva salvarmi. Mi vedeva andare dritto contro il disastro. Una paura non infondata nell’Inghilterra classista in cui sono cresciuto. Se suo figlio le dicesse oggi che vuole fare l’astronauta, avrebbe sicuramente più possibilità di quante ne avessi io all’epoca desiderando di diventare un nuovo Errol Flynn.

Come è riuscito a diventare un attore?

Era un sogno quasi impossibile diventare un attore di cinema e io sapevo che per farlo dovevo aumentare al massimo il mio senso di bisogno. Non sono un attore di teatro, né di televisione. Sono un attore di cinema che lo è diventato quando ad un’audizione per entrare alla scuola di cinema – cosa che accadeva una volta ogni due anni – sapendo che quella era la mia unica possibilità per fare ciò che sognavo, ho dimostrato di avere qualcosa di più rispetto a tutti gli altri intorno a me. Io avvertivo il senso di bisogno. 

Ha sfruttato questo approccio anche per il suo lavoro successivo?

Certo, perché la mia filosofia è quella di complicare le cose. In Bowfinger sapevo che tutto era troppo facile e che se volevo essere almeno allo stesso livello di Steve Martin e di Eddie Murphy dovevo a tutti i costi, rendere tutto più difficile. Ho imparato l’accento americano della costa orientale e ho escogitato altri piccoli trucchi per fare in modo che un attore ordinario come me, fosse al livello di due interpreti straordinari come loro.

Lei ha scritto una biografia e un romanzo. Non ha mai pensato a dirigere un film?

Dieci anni fa ho scritto il mio romanzo in cui descrivevo l’apice della mia esperienza. Mi ero detto: “Bene se qualcuno è interessato, quando sarò morto e sepolto potranno leggere questo libro e sapranno come ero io in questi giorni.” Giudicando dalle recensioni nessuno mi ha capito davvero e il libro sembrava destinato a cinque drag queen e a un Einstein. Sarebbe così difficile trasformarlo in un film e io non ho certo le capacità per farlo. Io non sono Soderberg che ha la capacità artistica di trasformare in cinema ogni cosa. Per quanto mi riguarda non credo di esserne capace. Non ho la capacità di dire alle persone come devono vivere, perché io stesso sono troppo occupato a farlo. 

Leggi anche:  Venezia 82, la cronaca diventa cinema: dal delitto Rosboch a "Elisa", fino al sequestro raccontato da Van Sant

In qualche maniera lei è sempre stato legato alla fantascienza e al fantastico. E’ un genere che la appassiona?

Quando ero un ragazzo adoravo la fantascienza. Era una maniera molto moderna per affrontare la realtà. Ero interessatissimo a come raccontare il mondo che vivevamo secondo un’altra prospettiva e adoravo i grandi scrittori di fantascienza e le cose che provenivano da altri mondi. La fantascienza era molto importante per me e non ho mai amato film che non ne mettessero correttamente in risalto il valore. Del resto conservo religiosamente sei libri di fantascienza che possedevo quando ero giovane come parte integrante della mia memoria come uomo. Non credo che me ne potrei mai separare. 

Le piace la fantascienza cinematografica di oggi?

Quale? Quella di Guerre Stellari, senza filosofia e senza niente dietro se non una disperata voglia di fare soldi vendendo giocattoli? Credo che la ‘mia’ fantascienza sia un’altra e io non farò mai un vero film di questo genere come Il pianeta proibito o Dune – che tra l’altro mi ha fatto molto arrabbiare. I film oggi sono troppo tecnologici. Si possono fare film senza gli attori, senza valori umani, ma possiamo davvero considerare questa ancora fantascienza?

Cosa pensa, invece, del genere noir?

Adoro la black comedy e il film che mi viene in mente è La grande abbuffata. Amo quel film e non mi sorprende che i francesi l’abbiano trattato tanto male. Parla di loro, della loro voglia smodata di mangiare…

Anche Angelica Huston dice di amare molto quel film…

Beh, ha vissuto tanti anni con Jack. Un pezzo mobile della black comedy…

Perché le piace tanto questo genere?

Perché è una sfida continua per l’attore. Sono orgoglioso di film come L’inglese o Vendetta di Stephen Frears. Rimpiango solo di non avere mai lavorato con Luis Bunuel.  Anche Bowfinger è una black comedy sulla vita a Hollywood. E’stato molto divertente essere un guru New Age disgustoso…

Una critica serrata al successo delle sette a Hollywood…

Non solo. C’era una scena che poi è stata tagliata dove mi si vedeva tra i nomi dei produttori del film e io apparivo con un sorriso idiota. Una cosa che a Hollywood capita spesso di vedere nomi di gente che non sai chi sia e che sembra abbia fatto tutto nel film…

Come è capitato a Tim Burton quando ha visto il nome di Francis Ford Coppola tra quelli dei produttori di Sleepy Hollow e lui non ne sapeva nulla…

Esattamente. 

Come attore cos’è quello che l’ha sorpresa di più nel suo lavoro?

Non lo so. Non ho ancora smesso di sorprendermi, nonostante siano quaranta anni che faccio questo mestiere.

Le sembra che sia passato così tanto tempo?

Assolutamente no. Recentemente sono stato al Rotterdam Film Festival dove c’era una retrospettiva a me dedicata e un tizio è venuto da me a chiedermi: “Dove è andato a finire quel ragazzo?” E io ho risposto con un po’ di magone: “Gesù, non lo so davvero…” Tutti ci sentiamo sempre gli stessi. Soltanto che le foto o i filmini amatoriali non riescono a rendere l’idea di come si era una volta fisicamente. Da dentro non mi sento molto cambiato da allora, ma esternamente…Un film sta lì a scioccarmi ogni giorno della tua vita. Non avverti il fluire del tempo, ma senti le sue impronte sulla tua anima. Detto questo c’è una parte di me che non cambierà mai, che non invecchierà mai. Sono un ottimista in questo senso…

Quale parte? L’uomo o l’attore?

Il motivo per cui le persone sono tanto affascinate dal cinema è che si entra in una stanza buia, dove un gioco di luce e ombre riflette su uno schermo la vita reale. Il fatto è che solo un gioco, nonostante tutto. Quello che conta di più è la luce. Il paragone con la vita è estremamente preciso. Sono cosciente di qualcosa che sento è dentro di me. Qualcosa che vede, che ascolta, che testimonia. Quella coscienza non cambierà mai. E’ giovane e vecchia al tempo stesso, e vive dentro di me. Per sempre.

Native

Articoli correlati