“Nella colonia penale”, il carcere agricolo diventa cinema
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“Nella colonia penale”, il carcere agricolo diventa cinema

Premiato a Locarno78 il documentario di Crivaro, Perra, Goia e Diana che racconta la vita quotidiana delle colonie penali in Sardegna

Locarno78, "Nella colonia penale" premiato alla Semaine de la Critique - intervista di Alessia de Antoniis
Locarno78, "Nella colonia penale" premiato alla Semaine de la Critique
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

22 Agosto 2025 - 20.18


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Alessia de Antoniis

Premiato al Locarno Film Festival con il Marco Zucchi Award, Nella colonia penale è il documentario corale diretto da Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana, presentato nella sezione Semaine de la Critique. La giuria lo ha definito il documentario più innovativo in termini di immagine e linguaggio cinematografico, capace di intrecciare con uno sguardo poetico e spiazzante la vita quotidiana di detenuti, guardiani e animali nelle colonie penali della Sardegna.

Girato a Isili, Mamone, Is Arenas e all’Asinara, il film racconta uno dei dispositivi più longevi e controversi della giustizia italiana: le colonie penali agricole, retaggio dell’imperialismo europeo, luoghi in cui la pena si sconta lavorando la terra e allevando animali. Qui i detenuti, in gran parte migranti extra-europei, vivono un tempo sospeso, scandito dal lavoro all’aperto ma segnato da regole che riproducono le stesse logiche di controllo dei penitenziari ordinari.

Questi istituti, introdotti formalmente dal Codice Rocco nel 1930 e ancora presenti nell’ordinamento penale, hanno avuto in passato un ruolo anche politico: durante il fascismo vi furono deportati dissidenti, omosessuali, antifascisti e renitenti alla leva. Alcuni internati sperimentavano l’“ergastolo bianco”, una detenzione potenzialmente senza termine.

Il film riflette su un “dispositivo” che resiste immutato, e interroga lo spettatore: fino a che punto le colonie penali sono retaggio del passato e quanto, invece, specchio del nostro presente?

Le colonie penali in Sardegna hanno una storia lunga. Qual è la loro origine e che cosa rappresentano oggi?

Gaetano Crivaro: Le colonie penali sarde esistono da molto prima del Codice Rocco. Il Codice del 1930 le ha formalmente integrate nell’ordinamento penitenziario, ma le prime nascono già nel 1875. Erano luoghi di quarantena e di detenzione, sulla scia dei modelli coloniali inglesi o francesi. Sono dunque un retaggio di un passato violento e controverso, che però è sopravvissuto fino alla Repubblica e che oggi viene presentato come spazio di rieducazione attraverso il lavoro.

Qual è la condizione concreta dei detenuti nelle colonie?

Alberto Diana: La particolarità è la sovrapposizione fra il detenuto e il lavoratore salariato. I reclusi, spesso a fine pena o con pene lievi, hanno orari, ricevono una paga, vanno al lavoro nei campi o nelle stalle, ma la sera tornano in cella. È una contraddizione evidente: da un lato c’è un regime meno repressivo del carcere “classico”, dall’altro resta comunque un sistema di sorveglianza e controllo.

Le riprese hanno avuto limiti o vincoli particolari?

Crivaro: Sì. La produzione aveva ottenuto le autorizzazioni ministeriali, ma una volta dentro ci siamo scontrati con la complessità gerarchica delle strutture. In alcuni casi c’era apertura, in altri molta chiusura. Non siamo mai entrati nelle celle: abbiamo filmato sempre attraverso barriere, tende, muri, sottolineando che il nostro sguardo non poteva essere totalmente interno. E abbiamo scelto di non indugiare sui ritratti individuali, per rispetto verso persone a fine pena che magari volevano dimenticare quella parentesi.

Avete avuto la sensazione che vi venisse mostrata una “vetrina”, un carcere presentabile?
Diana: Sì, inevitabilmente. È normale che un’istituzione tenda a mostrare gli aspetti più controllati e non quelli più critici. Le strutture sono ferme a decenni fa e necessiterebbero di ristrutturazioni profonde. Però a noi interessavano più le dinamiche umane e lavorative che non le rovine architettoniche.

Avete già mostrato il film all’interno delle colonie? Quali reazioni ci sono state?

Crivaro: Abbiamo fatto proiezioni a Isili e a Is Arenas. Erano presenti detenuti, agenti, operatori e direttori. È stato un momento importante perché la sala cinematografica crea uno spazio democratico: per un’ora e mezza l’esperienza è uguale per tutti. Alcuni detenuti si sono riconosciuti nel racconto e hanno detto che la colonia è una forma di detenzione meno dura del carcere ordinario. Non volevamo esaltare il modello, ma restituire il nostro punto di vista.

Non temete che il film venga strumentalizzato, magari come elogio delle colonie penali?

Diana: È un rischio che abbiamo considerato. Qualcuno potrebbe leggerlo come alternativa “mite”, ma sarebbe un travisamento. Nel film e nelle note di regia è chiaro che non c’è nessuna volontà di esaltare questo sistema. Certo, qualcuno ha fatto battute tipo “quasi quasi qui si sta bene, all’aria aperta”, ma resta sempre un sistema detentivo.

In che modo avete gestito il lavoro collettivo, essendo quattro registi?

Crivaro: Ciascuno ha girato in una colonia diversa, da gennaio 2022 a gennaio 2023. Condividevamo tutto il materiale: chi arrivava dopo poteva vedere le riprese dei colleghi. In montaggio abbiamo fatto scelte collettive, rinunciando a inquadrature ripetitive. La fotografia di Federica Ortu, presente in tutti gli episodi, ha garantito uniformità tecnica e stilistica.

Qual è la “violenza invisibile” nelle colonie?

Diana: Le colonie sembrano spazi aperti, quasi agricoli. Ma sono disseminati di muri invisibili. Penso a una scena banale: un detenuto bussa a una porta e non succede nulla. Poi arriva un agente, bussa con la chiave e il rumore metallico fa capire chi detiene il potere. Sono dettagli che rivelano la gerarchia costante e la disparità di voce.

Cos’è, oggi, un docufilm come ‘Nella colonia penale’?

Crivaro: un invito allo spettatore a immaginarsi in uno spazio dove lavoro e detenzione coincidono. Per noi è stata un’epifania, ci auguriamo che possa esserlo anche per chi guarda. Il carcere è sempre specchio della società: raccontare le colonie significa interrogare anche la nostra condizione di cittadini “fuori”.

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