Alessia de Antoniis
Il Ginesio Fest ha ospitato Altri libertini, di e con Licia Lanera che riscrive Tondelli per il teatro, e trascina con lei Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva e Roberto Magnai.
Per tutto lo spettacolo ho atteso di trovare una risposta a una domanda che da anni mi assilla: ma noi, quelli che sono diventati grandi negli anni Ottanta, quelli che allora frequentavano liceo e università, che non si chiedevano quale fosse il genere di Boy George o David Bowie; che si erano lasciati alle spalle gli anni di piombo, che dovevano dimostrare di vivere in un decennio migliore dei mitici anni Sessanta dei nostri genitori, noi… dove ci siamo persi? Noi che dovevamo riscrivere il mondo, dove abbiamo sbagliato strada? Quale direzione vietata abbiamo imboccato a tutta velocità?
Quarantaquattro anni dopo la pubblicazione di Altri libertini, Licia Lanera porta in scena il romanzo d’esordio di Pier Vittorio Tondelli trasformandolo in un concerto teatrale. Non un semplice adattamento, ma un attraversamento: omaggio e tradimento insieme, dove la fedeltà alle parole originarie si intreccia con un gesto registico che le scaglia dentro una grammatica da live rock. Il risultato è una rappresentazione che non lascia indifferenti: o si abbraccia la sua ferocia espressiva o se ne resta travolti.
La scena è povera e dichiarata: un letto disfatto, un tavolo su cavalletti. Ma che sa trasformarsi in un altro spazio, quello del concerto. Non c’è illusione, solo un’esposizione brutale. Persino la mini-cyclette sul lato sembra ricordare che il corpo è sempre luogo di crisi e riabilitazione.
Le luci (di Martin Palma) tengono insieme questi due mondi: un blu cobalto diffuso e “bagnato”, reso visibile dall’haze costante, avvolge lo spazio come un notturno denso, da club. In controluce entrano bank di LED e blinder ambrati, che aprono improvvisi squarci di calore: la scena scivola allora verso l’estetica del concerto, più che verso il realismo domestico. Le proiezioni di nomi segnano i capitoli del viaggio, come didascalie luminose di un film interiore.
La scritta luminosa “1980” lampeggia in apertura. E un incipit frenetico, carico di aspettative, è quello che ci regala Licia Lanera con ritmo martellante: un elenco di fatti — Pertini Presidente, Cossiga capo del Governo, la strage di Bologna, il terremoto in Irpinia, la marcia dei quarantamila (storico sciopero Fiat – nda), l’esordio di Vasco Rossi, gli eventi calcistici — che non è solo cronaca, ma contesto emotivo.
Nonostante l’apparenza di un flusso unico, la rappresentazione è corale. Cupaiuolo, Lanera, Giuva e Magnani non recitano monologhi separati, ma compongono una partitura di voci intrecciate. Al microfono centrale non c’è un narratore unico, ma un frontman che di volta in volta assume il ruolo del cantante, lasciando agli altri il contrappunto. Ne risulta una coralità sporca, volutamente instabile, che restituisce l’impressione di una gioventù frantumata; un affresco generazionale spietato quanto necessario.
Il linguaggio è l’arma principale: gergale, viscerale, senza mediazioni. “Siamo solo noi” – il refrain di Vasco Rossi che attraversa la messa in scena – diventa il manifesto di una generazione “che non abbiamo vita regolare, che non ci sappiamo limitare”. Lanera non indora la pillola: bestemmie, volgarità, descrizioni crude di sesso e droga non sono gratuite, ma funzionali a restituire l’autenticità di un’esperienza. Quella che ha nutrito la scrittura di Tondelli.
Tutti esistono in funzione del loro rapporto con il desiderio, la dipendenza, la ricerca disperata di autenticità. In un viaggio attraverso relazioni tumultuose, uso di droghe, precarietà economica e abitativa e momenti di profonda crisi esistenziale. È drammaturgia che non concede sconti, che obbliga a guardare il fondo del baratro senza romanticherie.
Una delle componenti dello spettacolo sta nel gioco metateatrale. Le pause programmatiche – “facciamo due o tre minuti di pausa… così voi potete parlare, accendere il telefono, chattare su Facebook” – spezzano deliberatamente l’incantesimo scenico, trasformando la rottura della quarta parete in necessità espressiva. Il pubblico diventa così complice, testimone, giudice di un’autobiografia collettiva.
Se c’è un appunto da muovere alla messa in scena, è forse nella resa del testo di partenza. Il flusso di coscienza tondelliano, già arduo sulla pagina, rischia di sfibrare l’attenzione dello spettatore. Alcuni passaggi risultano ridondanti e la durata complessiva mette alla prova la tenuta emotiva.
Altri libertini forse non è rappresentazione per tutti ma, in un panorama spesso addomesticato, Lanera rivendica il diritto all’inquietudine, alla verità senza mediazioni. È un gesto artistico coraggioso che onora lo spirito anarchico di Tondelli trasportandolo nell’oggi con intelligenza e passione. Senza nostalgia.
Un’opera che vive di una curva anomala: apre con energia travolgente, attraversa un lungo segmento centrale meno impattante e concentra la massima tensione nel finale. Quando parte Vivere di Vasco Rossi, mentre il pubblico si alza ed esce, la musica non si spegne: resta a pulsare, come inno generazionale, ma anche come pugno allo stomaco. Per chi ha attraversato gli anni Ottanta da liceale o matricola, quel momento non è nostalgia ma riconoscimento: la colonna sonora di una sopravvivenza.
Altri libertini non è teatro accomodante. Semmai una proposta impegnativa. Ma chi resta dentro, ne esce con l’impressione di aver partecipato a un rito, a un concerto dell’anima più che a una rappresentazione.
Licia Lanera restituisce alla scena la sua funzione di disturbo e rende a Tondelli l’onore di un tradimento fedele: quello che, invece di ripetere, rifonda.