Alessia de Antoniis
Al Ginesio Fest anche il Vincitore del Premio Ubu 2024 come miglior spettacolo di danza. Stuporosa di Francesco Marilungo si presenta come un affresco rituale che scava nelle pieghe più arcaiche del patire umano. Fin dall’inizio, le cinque interpreti (Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini, Vera Di Lecce, con Martina Di Prato in cast a rotazione) emergono dalla penombra come un corpo unico, un coro tragico che respira all’unisono e subito si lacera, lasciando affiorare singole presenze che vengono risucchiate di nuovo nel gruppo. I costumi scuri, pesanti, con pieghe che evocano tanto il lutto barocco quanto i ritratti di corte, conferiscono un peso concreto alla scena, mentre la luce di Gianni Staropoli scolpisce i corpi e li proietta in ombre monumentali, restituendo la dimensione ieratica del rito.
Il titolo rimanda a uno stato di sospensione, a quello stupore che non è meraviglia ma spaesamento: la soglia tra controllo e abbandono. Le danzatrici incarnano questa condizione attraverso un linguaggio fisico frammentato, scosso, dove lo sguardo si fa smarrito, il gesto si interrompe e ricomincia, il corpo sembra attraversato da correnti interiori che lo possiedono. In questo senso Stuporosa si colloca su un terreno che riecheggia le ricerche antropologiche di Ernesto De Martino: la crisi individuale viene assunta e risolta nel rito comunitario, il pianto diventa canto, la sofferenza viene esorcizzata attraverso una coralità che non è consolazione ma attraversamento.
La voce di Vera Di Lecce, che guida e avvolge l’intera partitura sonora, affonda nelle tradizioni del Sud Italia. Le nenie arcaiche, le modulazioni spezzate, gli accenti che richiamano i lamenti funebri salentini e le inflessioni della pizzica nella sua radice terapeutica, creano un tessuto sonoro che non accompagna ma invade, trascina, avvita i corpi in uno stato di trance. È un canto che nasce come singhiozzo e si trasforma in respiro collettivo, oscillando tra invocazione e lamento.
Nel corso dello spettacolo il nero dei costumi si scioglie e lascia spazio al bianco delle camicie leggere. Le performer appaiono improvvisamente vulnerabili, spogliate del peso della veste barocca: è un passaggio simbolico che rovescia la gravità in candore, il vincolo in apertura, il buio in esposizione. La spogliazione che porta le danzatrici dal peso dei broccati neri al candore delle vesti leggere assume così la forza di una trasformazione alchemica. Il nero della nigredo – la fase di disfacimento e morte – lascia spazio all’albedo, alla purificazione, a un corpo che si offre vulnerabile e rinnovato. In una delle immagini più potenti dello spettacolo, tre figure in nero sorreggono la compagna spogliata, avvolta in una tunica bianca minimale: un tableau vivant che richiama immediatamente la Deposizione, icona sacra che diventa qui corpo femminile, comunità che accoglie e trasmuta, rito di passaggio più che semplice morte. Marilungo intreccia in questo gesto l’immaginario cristiano, la tradizione rituale del Sud e la tensione verso una rinascita che è al tempo stesso intima e collettiva.
Marilungo lavora su un confine delicato, quello che separa la danza dall’installazione vivente. Alcuni oggetti scenici – come i nastri bianchi – rimandano direttamente all’immaginario di Pina Bausch, dove il gioco si confonde con il vincolo, l’infanzia con la costrizione, e il corpo viene segnato da tracce che sono insieme segno e ferita. Lo spettacolo procede per accumulo e ripetizione, in un tempo che sembra circolare più che lineare, fino a restituire allo spettatore l’esperienza di un rito: non da comprendere razionalmente, ma da attraversare con i sensi e con la memoria.
Stuporosa è un luogo dove il corpo femminile si fa portavoce di un’umanità dolente che cerca una forma di resistenza nella coralità. È uno spettacolo che lascia addosso la vertigine del rito, la percezione che senza comunità e senza canto nessuna crisi può davvero essere attraversata.