Fratellanza e sorellanza come scelta d’amore e responsabilità, non come vincolo di sangue o di natura

In 'Uno diviso due. Fratelli e sorelle' Massimo Recalcati spiega che la vera fratellanza e sorellanza non dipendono dal sangue, ma da responsabilità, dono, cura e condivisione della fragilità.

Fratellanza e sorellanza come scelta d’amore e responsabilità, non come vincolo di sangue o di natura
Massimo Recalcati
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24 Agosto 2025 - 12.47


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di Antonio Salvati

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Cosa definisce un figlio? Non un patrimonio genetico. Il sangue non è la sostanza né della fratellanza né della sorellanza. In altri termini, la consanguineità non determina un rapporto di fratellanza. Avere lo stesso sangue può illudere, infatti, che la fratellanza o la sorellanza siano dei legami già istituiti per legge di natura. Lo spiega Massimo Recalcati nel suo volume Uno diviso due. Fratelli e sorelle, (Feltrinelli 2025 pp. 128 € 15,20). I legami familiari non rispondono alla legge dell’istinto. È un errore fatale, simile a quello che confonde l’essere padri o madri con l’essere i genitori biologici dei figli. Ma né la biologia, né l’anatomia, né tantomeno il sangue possono rispondere davvero alle domande “Che cosa significa essere padre o madre?” o “Che cosa significa essere fratelli o sorelle?”.

“Cosa fa di un uomo un padre?” Non tanto uno spermatozoo, ma un gesto di adozione simbolica: tu sei mio figlio. Non tanto lo spermatozoo, quindi, quanto un gesto di una adozione simbolica. Se non c’è questo gesto di adozione simbolica, che genera da parte del padre nei confronti del figlio una responsabilità illimitata, non c’è padre. Il materialismo del sangue non può essere un vincolo che certifica l’esistenza di un legame effettivo di paternità o di maternità, come non può certificare l’esistenza di un legame di fratellanza o di sorellanza. Recalcati lo ribadisce, partendo dal racconto biblico. I legami fraterni fondati sulla Legge della natura si rivelano drammaticamente fallimentari, corrosi dalla rivendicazione gelosa e dalla conflittualità. Caino e Abele, Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli, la parabola del figliol prodigo nel Vangelo di Luca «illustrano in modo esemplare la degradazione della fratellanza fondata sul sangue in una forma inesausta di contesa». Proprio per questa ragione la Bibbia «ci invita a estendere il significato della fratellanza e della sorellanza al di là del sangue». Un piccolo inciso: l’hitlerismo si fondava sul mito del sangue, della razza. Emblematica una pagina del Vangelo di Marco – quella relativa al tentativo della madre e dei suoi familiari di incontrarlo – in cui Gesù utilizza un’espressione dura e severa: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mc 3,33).

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È una indicazione precisa e rigorosa: non cercate il legame di filiazione nel sangue, non confondete la materia della consanguineità con quella dell’amore, non identificate il fratello e la sorella con i figli naturali di vostra madre, non riducete la fratellanza a un fatto di natura. Poi Gesù, volgendo il suo sguardo verso coloro che lo stavano ascoltando, dirà ai suoi esterrefatti famigliari: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi infatti fa la volontà di Dio, questi è mio fratello e sorella e madre!» (Mc 3,34). Pertanto, nelle parole di Gesù, fratello e sorella «definiscono evangelicamente colui che è in grado di farsi prossimo. È la testimonianza offerta dal buon samaritano che, pur non avendo alcun legame di sangue con chi è stato rapinato, percosso e ferito, si prende cura di lui senza esigere nemmeno una ricompensa».

Recalcati sostiene che fratellanza e sorellanza «non sono legami retti da una reciprocità simmetrica, ma implicano un atto di donazione senza ritorno, in perdita necessaria. Da questo punto di vista, infatti, i conti tra fratelli e sorelle sono destinati a non tornare mai». È quello che spesso si verifica di fronte ai testamenti ereditari: le aspettative non sono ricambiate, la spartizione non è mai equa. «La suddivisione dei patrimoni lascia sempre qualcuno con la convinzione che si sia compiuta una ingiustizia. È una delle tante manifestazioni evidenti, nonostante gli sforzi del legislatore (si pensi alla cosiddetta “legittima” nella divisione del patrimonio ereditato dai fratelli e dalle sorelle), dell’impossibilità della giustizia retributiva». Le contese talvolta interminabili tra fratelli e sorelle, di cui lo psicoanalista fa necessariamente esperienza nella sua attività clinica e che conosciamo per esperienza comune, restano frequentemente bloccate o incastrate dall’idea o dall’illusione dell’esigenza «di una giustizia retributiva che non può mai garantire una autentica trasmissione dell’eredità. La Legge del taglione non può esprimere il senso della fratellanza e della sorellanza. È necessario – spiega Recalcati – un altro passo, «un’altra logica, il salto nel vuoto nella asimmetria, nella differenza irriducibile del Due. Al contrario, nella contesa per l’eredità interpretata come proprietà, la fratellanza e la sorellanza non si rivelano come tali poiché predomina la seduzione infernale dello specchio, l’inganno mortale della contesa e della rivalità, la spinta alla rivendicazione e al risarcimento dei torti subiti. (…). Il lutto dell’Uno significa lasciare andare l’idea che possa esistere una giustizia retributiva in grado di sanare una volta per tutte i conflitti fratricidi per assumere una alterità che non può essere mai del tutto governata, che non è a nostra disposizione». La nascita del fratello o della sorella è spesso una tragedia perché divide l’Uno e sviluppa rivalità aggressiva e gelosa, un senso di intrusione e di sostituzione (la nuova sorellina mi ha sostituito, mi ha rimpiazzato). La prima tendenza pulsionale dell’umano non è quella di accogliere il Due, ma quella di respingerlo, di negarne l’esistenza Ma l’arrivo del fratellino o della sorellina potrebbe essere anche un trauma virtuoso «perché il nuovo fratello mi indica che non solo io al centro dell’attenzione». Ma è possibile sottrarre la fratellanza e la sorellanza all’inimicizia, alle illusioni nefaste del sangue? Al di là di queste tremende illusioni: che cosa ci può rendere davvero fratelli e sorelle? Ancora una volta il testo biblico ci viene in aiuto. La prima risposta ci è offerta dalla lezione di Giobbe. Se la prendiamo sul serio, «dovremmo considerare che la matrice del legame più autentico di fratellanza o di sorellanza si trova nel nostro destino mortale, nel nostro urto contro le avversità, nel riconoscimento della condivisione del carattere tragico e finito della nostra esistenza». È la stessa lezione che troviamo in Qoelet, dove di fronte al reale avverso dell’esistenza ammonisce l’umano: «Guai a chi si trova solo e cade» (Qo, 4,10). È proprio di fronte alla «nostra inermità strutturale e inemendabile che acquista valore il sentimento dell’essere davvero fratelli e sorelle. Ogni gesto di cura rinnova, infatti, l’essenziale del farsi prossimo all’altro che cade. È sorprendente la facilità con la quale gli esseri umani tendono a rimuovere questo fatto elementare: potere, successo, ricchezza, fama – magari ottenuti nel conflitto a morte con l’altro – sono destinati a sciogliersi come neve al sole». La lezione di Giobbe, unita a quella di Qoelet, confligge radicalmente con quella di Thomas Hobbes. Il legame sociale non è ciò che dovrebbe difenderci dalla paura della morte, ovvero dalla violenza anarchica che caratterizza lo stato di natura. È la sua tesi capitale: il patto della convivenza sociale sorge come difesa della propria vita dal rischio della “guerra di tutti contro tutti”.

Di fronte all’orizzonte aperto della vita, essere fratelli e sorelle significa «rischiare il proprio desiderio, giocare sino in fondo la partita della vita, non rinunciare alla propria vocazione, sperimentare l’apertura del Due». Significa condividere, in altre parole, quella che Franco Fornari nominava “l’angoscia genetica” della creazione. Se ogni creazione espone il soggetto di fronte alla propria responsabilità, l’essere fratelli e sorelle è riconoscere che questo concerne ciascuno di noi, che questo definisce la nostra esistenza in quanto umana. È quello che la Rivoluzione francese ha legittimato politicamente: la fratellanza non è un fatto di sangue ma un’aspirazione collettiva che deve avere la stessa dignità degli ideali di libertà ed eguaglianza.

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Il testo di Recalcati è una sorta di “una grammatica della fraternità”, per utilizzare un’espressione di Papa Francesco che ebbe a dire che la fraternità «nei suoi effetti occorre subito dire che essa è la resistenza alla crudeltà del mondo. Perché da quando c’è l’umanità Polemos, il demone della guerra, è presente e si manifesta nella rivalità che giunge alla negazione, all’uccisione dell’altro come rivela il fratricidio di Abele da parte di Caino». La fraternità deve rigenerarsi sempre e resistere alla rivalità che porta alla violenza e alla guerra. Purtroppo, la fraternità è ciò che manca di più al nostro vivere insieme, ed è proprio la sua assenza che causa sofferenza. «Senza la fraternità, l’uguaglianza e la libertà resteranno sempre valori minacciati, deboli e facilmente contraddetti. Certamente, la fraternità va decisa con una scelta: il rigetto dell’esclusione, la volontà della riconciliazione, il desiderio di una comunione umana profonda». 

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