Radici: il peso morto della buona volontà

Al GinesioFest in scena il Coordinamento Femminista di Enna, di Alba Maria Porto e Giulia Ottaviano, tra memoria privata e storia collettiva

Radici di Alba Maria Porto e Giulia Ottaviano al GinesioFest - recensione di Alessia de Antoniis
Radici di Alba Maria Porto e Giulia Ottaviano al GinesioFest
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25 Agosto 2025 - 20.07


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Alessia de Antoniis

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Radici di Alba Maria Porto e Giulia Ottaviano si presenta con tutte le credenziali per essere teatro politico serio: un quaderno autentico del Coordinamento Femminista di Enna del 1975, testimonianze crude su aborti clandestini e violenza domestica, la promessa di dare voce a una generazione di donne che ha combattuto per diritti che oggi diamo per scontati. Peccato che da queste premesse nasca un’ora di buone intenzioni teatralizzate.

Il problema non è cosa si dice, ma come. Il materiale di partenza è esplosivo: Maria che racconta l’aborto con il cucchiaio, Antonia che scopre di poter esistere senza chiedere permesso al marito, Cinzia che sogna Bologna come fuga da un Sud che la soffoca. Storie che avrebbero dovuto spaccare il palcoscenico e che invece vengono recitate come una lezione di educazione civica, con quella cadenza monocorde e quel tono edificante che trasforma ogni grido in sussurro.

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La regia sceglie l’essenziale: poche sedie, luci nette (di Davide Rigodanza), corpi fermi che si alzano e si siedono. Ma l’essenzialità funziona solo quando nasce da una necessità espressiva: qui sembra più un’assenza di idee. Anche lo slogan “L’utero è mio e decido io” arriva spento, recitato come una formula liturgica, non come un pugno sul tavolo.

Il personaggio di Stefano, il giovane in cerca della madre mai conosciuta, dovrebbe essere il ponte tra passato e presente. Resta invece un espediente narrativo, un pretesto per riaprire il quaderno e scorrerne le pagine. La sua ricerca non emoziona, non inquieta: diventa didascalia.

Il paradosso è che la fedeltà al documento originario, comprensibile sul piano delle intenzioni, qui si trasforma in mummificazione. Il quaderno di Enna era vivo perché nato da corpi in lotta, da rabbie fresche, da paure immediate. In scena lo si ascolta come un reperto museale, con la deferenza dovuta alle reliquie, non con la rabbia che le aveva generate.

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E c’è un altro punto: in un momento storico in cui i diritti delle donne sono di nuovo terreno di scontro politico e sociale, il teatro che sceglie di parlare di femminismo non può limitarsi a un esercizio di memoria. Deve disturbare, deve inquietare. Radici, invece, preferisce la commemorazione alla provocazione, la retorica all’azione. Il risultato è un femminismo da festival: rassicurante, già digerito, incapace di scuotere chi guarda.

Lo spettacolo tradisce così lo spirito delle donne che avrebbe voluto celebrare. Quelle voci non chiedevano di essere ricordate con rispetto, ma di essere ascoltate con urgenza. Portarle in scena senza restituirne la forza, significa svuotarle. E a sipario calato rimane solo una domanda: che cosa farebbero le donne del Coordinamento di Enna – Enna, nel cuore della Sicilia, non “Milano vicina all’Europa“; anni Settanta, non oggi – vedendo ridotte le loro parole a questo sussurro educato? Probabilmente quello che hanno sempre fatto: si alzerebbero e se ne andrebbero; forse sbattendo la porta.

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