di Alessia de Antoniis
Al Todi festival, nel chiostro di San Fortunato, due pipistrelli intrappolati cercavano una via d’uscita. Come Alda Merini: sospesa tra il desiderio di librarsi e una libertà sempre decisa da altri. In quell’immagine casuale, stava già il senso dello spettacolo: eravamo tutti Alda, nel continuo oscillare tra prigionia e slancio, tra costrizione e sogno.
“Sono nata il 21 a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle, potesse scatenar tempesta”, la voce di Alda Merini apre Parole al vento come un’invocazione e una confessione. Non è soltanto il verso più noto, ma una dichiarazione di poetica: la follia come germoglio vitale, il disordine come seme creativo. Da lì prende forma lo spettacolo presentato al Todi Festival, in cui la regista Donatella Massimilla, l’attrice cantante Gilberta Crispino, l’attrice Mariangela Ginetti e il pianista Yousi Fortun Y Perez danno corpo a un mosaico che fonde biografia, poesia e testimonianze delle “Voci di Dentro”, le donne recluse di San Vittore con cui la compagnia lavora da oltre trent’anni.
Il rischio, quando si porta in scena Alda Merini, è quello di trasformarla in reliquia: la Poetessa dei Navigli già celebrata, candidata da Dario Fo al Nobel, custode di aneddoti eccentrici e battute fulminanti (“Non prenderò mai il Nobel perché in Svezia fa freddo”). Ma Parole al vento sceglie un’altra via: restituirla come corpo vivo, fragile e ironico, capace di ridere delle proprie ossessioni e di trasformare il dolore in canto. La drammaturgia alterna episodi biografici – l’amore clandestino con Manganelli, gli elettroshock al Paolo Pini, il matrimonio con Ettore Carniti, l’incontro con Michele Pierri – a versi e canzoni che si intrecciano senza soluzione di continuità, fino a esplodere in momenti di leggerezza corale, come l’irruzione di Volare o i giochi infantili evocati dalle bambole di Sabine.
Voci collettive che si sovrappongono e si contraddicono, musica che smorza e rilancia, restituendo al pubblico lo stesso movimento ossessivo della scrittura meriniana. Ma proprio in quella eccedenza, in quel traboccare, sta l’anima del lavoro: non una lezione su Alda Merini, bensì un’esperienza che la fa rivivere come presenza irregolare, scomoda, capace di specchiarsi nelle marginalità di oggi.
La forza dello spettacolo sta proprio in questo doppio registro: la poesia come testimonianza e la testimonianza come poesia. Le parole della Merini si rifrangono nelle storie delle donne recluse, nelle lotte di Franca Rame, nelle memorie di Sabine, donna trans che rivendica il proprio nome davanti al Papa. L’eco di quelle voci si intreccia con i versi della poetessa, fino a diventare un coro che non separa mai vita e arte. Il CETEC, fedele alla sua vocazione di teatro nei luoghi di confine, trasforma il palco in un ponte tra memoria e presente, tra margine e centro, tra follia e lucidità.
In scena resta la leggerezza: la risata che spezza il dolore, il canto che trasfigura la ferita, l’ironia che restituisce dignità all’eccesso. Al termine resta l’emozione, la commozione, lacrime che salgono in gola e spingono alcune di noi ad abbracciarsi, come portatrici di un antico messaggio.
Parole al vento è questo: un atto d’amore che non monumentalizza, ma accoglie. E ricorda che, come scriveva Merini, “anche la follia merita i suoi applausi”.