Alessia de Antoniis
L’anno moriva, assai dolcemente. Così si apre Il Piacere di D’Annunzio, e così potrebbe aprirsi anche lo spettacolo di Silvano Spada, Maria José. L’ultima Regina d’Italia, andato in scena al Todi Festival. Le scenografie sembrano uscite da quelle pagine dannunziane: lampi di eleganza decadente, velluti che odorano di memoria, una luce che scolpisce i contorni come fossero dipinti.
Dietro l’attrice, un paravento dorato con motivi floreali in stile liberty crea una quinta aristocratica e nostalgica, mentre sul tavolo da salotto, impeccabilmente allestito con lampada, cristalleria per il whisky, libri e un mappamondo che racconta di viaggi lontani, si dispongono gli oggetti di una vita in esilio. Ogni elemento scenografico diventa simbolo: il globo terrestre delle peregrinazioni dopo il regno perduto, i volumi della cultura che ha sempre coltivato, il whisky della solitudine che accompagna i ricordi.
Al centro, Elena Croce abita la scena come si abita una stanza in cui si è vissuto tutto e da cui si è pronti ad andarsene. Non semplicemente attrice, ma presenza che si lascia abitare dal ruolo. La sua Maria José ha la grazia febbrile di Sarah Bernhardt e la malinconia di una regina stanca, sola, persa sulla via dei ricordi. È anziana, fuma, beve whisky, si lascia cadere nei flussi di memoria senza più difese. Croce si muove in scena con il bastone come unica compagnia, ma il suo portamento mantiene una regalità naturale che nemmeno la fragilità dell’età riesce a scalfire. Lo scialle con le frange che la avvolge evoca l’eleganza d’altri tempi, mentre la gestualità nel tenere la sigaretta, con quel fumo che si dissolve lentamente nell’aria del teatro, diventa metafora poetica di una memoria che svanisce.
Il testo, scritto e diretto da Spada, non ricostruisce soltanto la parabola dell’ultima regina d’Italia (un mese scarso di regno nel 1946), ma la restituisce come donna inquieta, anticonformista, fuori dal protocollo. La Maria José di Croce racconta il matrimonio imposto, la guerra, l’esilio, la disillusione politica, gli incontri con Mussolini, Hitler, Ciano, con Parri e Nenni, fino alle armi consegnate ai partigiani. Ma più che una cronaca, è un flusso di coscienza: un lungo addio alla vita, un bilancio segnato da solitudini e ferite.
L’intimità del Nido dell’Aquila di Todi, avvolge attrice e spettatori in un rapporto diretto e partecipe. In quella penombra raccolta, le parole si fanno confessione. Non c’è enfasi retorica, ma il passo disincantato di chi ha visto troppo e troppo ha perso. “No, non sola: solitaria”, dice la regina, e in quel momento Elena Croce sembra davvero incarnare la distinzione, sottile ma fondamentale, tra chi subisce l’isolamento e chi lo sceglie. È in questa distinzione che lo spettacolo trova la sua verità: non la celebrazione di un’icona, ma il ritratto di una donna che, tra errori e coraggio, ha attraversato la storia.
Elena Croce incarna una regina che non ha più nulla da difendere, se non la memoria stessa. Il fumo della sua sigaretta che si alza verso le luci del teatro diventa immagine dello spettacolo: una vita che si dissolve lentamente, ma con dignità. E quando lo spettacolo si chiude, resta la sensazione di aver ascoltato non tanto un monologo teatrale, ma una confessione postuma. Come se Maria José, da quella poltrona tra i suoi oggetti di sempre, avesse finalmente deciso di raccontarsi a noi senza filtri.