di Alessia de Antoniis
Il tailleur rosa Chanel macchiato di sangue è lì, sul palcoscenico del Todi Festival, identico a quello che Jacqueline Kennedy si rifiutò di togliere il 22 novembre 1963: “Voglio che tutti vedano quello che hanno fatto a John”, disse a suo tempo la prima first lady mediatica della storia moderna. Ma nel passaggio dal testo di Elfriede Jelinek alla scena, qualcosa si perde.
Jelinek scrive un dispositivo letterario di straordinaria efficacia: far parlare l’icona dalla morte, trasformarla in analista spietata di se stessa e del sistema che l’ha generata. “Io sono l’abito”, dichiara Jackie, definendosi come pura superficie, forma svuotata di sostanza umana. Questa autocoscienza dell’essere diventata simulacro è una critica feroce all’industria culturale americana.
L’adattamento di Gaeta, pur nel dichiarato intento di attualizzare il testo (“oggi noi siamo Jackie”, scrive nelle note di regia), illustra, invece che performare, la complessità dell’operazione jelinekiana. Il vecchio televisore che proietta le immagini storiche dell’assassinio di Dallas, gli spari che scandiscono i cambi di ritmo, lo stesso tailleur insanguinato: tutto concorre a creare un’atmosfera sicuramente evocativa.
Il palco trasparente sopraelevato, con la bandiera americana distesa sotto il plexiglass, rende con efficacia l’idea di Jackie come figura sospesa sull’iconografia nazionale e, al tempo stesso, prigioniera di essa: l’attrice diventa superficie simbolica, vetrina dell’immaginario americano. La medesima logica ritorna con Marilyn (Nives Arena), rinchiusa in un “sarcofago” di plexiglass.
Luci e scenotecnica sono gestite con intelligenza: coni d’isolamento e aperture al pubblico restituiscono la dialettica tra privato e spettacolo che attraversa il testo. Tuttavia, questi espedienti, per quanto efficaci, non riescono a compensare i limiti del registro interpretativo.
Patrizia Bellucci apre la rappresentazione con un timbro infantile che traduce alla lettera “sono la bambina nella donna”. Ma la Jackie di Jelinek non è nostalgica né patetica. Ne deriva una Jackie dal tono più vicino alla Marilyn di Gli uomini preferiscono le bionde o Quando la moglie è in vacanza che all’implacabile macchina di pensiero jelinekiana. Quando arrivano Dallas, i tradimenti e gli aborti, l’intonazione non affonda la lama: la confessione resta immagine, non ferita.
La scrittura di Jelinek è dirompente proprio perché smonta la logica biografica, rifiutando l’illusione della “vera” Jackie Kennedy e mostrando invece la spietata meccanica che trasforma le persone in icone da consumo. L’adattamento, però, tradisce questa tensione: invece di rilanciare la provocazione, rincorre una verosimiglianza, ridando corpo a ciò che Jelinek aveva volutamente dissolto. Manca soprattutto la declinazione performativa del “corpo-archivio”: una Jackie che si espone ai riflettori come deposito vivente della violenza patriarcale americana, dove aborti, malattie e traumi diventano documenti storici. In questa prospettiva, il «ventre di cemento» non è solo metafora di sterilità, ma materializzazione di un sistema che mercifica la riproduzione femminile.
Tailleur, plexiglass, immagini d’archivio: icone potenti ma rassicuranti, che mettono ordine là dove Jelinek racconta detriti. Resta la reliquia, scompare la ferita linguistica.
Dire che lo spettacolo “non funziona” sarebbe ingeneroso e impreciso. Funziona come adattamento teatrale di un testo complesso, come omaggio a una delle voci più radicali del teatro contemporaneo, come occasione di riflessione sulla persistenza dei meccanismi spettacolari che ci attraversano quotidianamente. Non funziona come critica in atto di quei meccanismi.
La regia di Gaeta, nelle scelte scenografiche e drammaturgiche, opta per la ricostruzione dell’iconografia storica. Pur ben congegnato sul piano tecnico, l’operazione vista al Todi Festival sembra più teatro su Jelinek che teatro jelinkiano.