Orlandi al Todi Festival: «L’oggetto del ricatto non può essere solo una ragazzina»
Top

Orlandi al Todi Festival: «L’oggetto del ricatto non può essere solo una ragazzina»

Dal palco umbro, l’accusa più dura del fratello di Emanuela: “Qualcuno ha in mano qualcosa di così forte da riuscire a condizionare lo Stato più potente al mondo”

Valerio Di Benedetto, Pietro Orlandi, Giovanni Franci - Todi Festival - Ph Roberta Savona
Valerio Di Benedetto, Pietro Orlandi, Giovanni Franci - Todi Festival - Ph Roberta Savona
Preroll

Alessia de Antoniis Modifica articolo

6 Settembre 2025 - 23.04


ATF

di Alessia de Antoniis

Non una testimonianza privata, non un ricordo intimo, ma un atto politico. Così è apparso l’intervento di Pietro Orlandi al Todi Festival, a margine dello spettacolo di Giovanni Franci Pietro Orlandi, Fratello. Le sue parole hanno spostato il caso della sorella Emanuela – scomparsa a Roma il 22 giugno 1983 – dal terreno della cronaca a quello dello scontro tra poteri, mettendo sotto accusa i silenzi del Vaticano e le complicità dello Stato italiano.

«Tutto è politica, questo spettacolo più che mai è politica», ha detto dal palco, ribadendo che la battaglia per la verità non riguarda solo la sua famiglia, ma l’anatomia di un potere che da quarantadue anni resiste a ogni pressione istituzionale.

Il ricatto che ancora pesa

La tesi più dirompente arriva quando Orlandi tocca il cuore oscuro della vicenda: «L’oggetto del ricatto non può essere solo Emanuela, una ragazzina cittadina del Vaticano. Se ricatti lo Stato più potente al mondo, non può essere che l’oggetto sia soltanto una ragazza. Secondo me c’è ancora oggi qualcuno che detiene quell’oggetto. Magari non sono più le stesse persone, ma chi possiede un potere così forte ha la capacità di condizionare e gestire lo Stato più potente al mondo. Quel ricatto è ancora attivo».

Non segreti sepolti con uomini di un’altra epoca, dunque, ma una catena di comando viva, che Orlandi descrive come capace ancora oggi di dettare l’agenda vaticana.

Il dossier negato e poi ammesso

Emblematico, secondo Pietro, il caso del fascicolo conservato nella Segreteria di Stato. Per decenni il Vaticano ha negato di possedere documenti sul caso Orlandi: «Qua non c’è nessuna carta, non sappiamo niente, non abbiamo mai indagato», era la risposta ufficiale.

Ma la verità è emersa davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta: «Per anni hanno ripetuto che non esisteva nulla. Poi il comandante della Gendarmeria Vaticana, Giani, ha ammesso che quel fascicolo c’era davvero. È la conferma che smonta decenni di smentite». Una conferma immediatamente sterilizzata dalla clausola successiva: “il fascicolo esiste, ma è ancora riservato e non condivisibile”.

Il procuratore vaticano: “È una cosa nostra”

Al Senato si è consumata un’altra scena che fotografa il braccio di ferro tra Stati. Il procuratore vaticano Alessandro Diddi, davanti ai senatori italiani, ha definito la commissione parlamentare d’inchiesta «un’interferenza perniciosa all’ottimo lavoro che già stiamo facendo». Per Pietro Orlandi, quella frase equivale a un messaggio inequivocabile: «È stato un modo elegante per dire: è una cosa nostra».

Una rivendicazione di extraterritorialità assoluta che, nella sua lettura, suona come un affronto allo Stato italiano e alle famiglie delle persone scomparse.

La globalizzazione del caso

A cambiare gli equilibri è stata la miniserie Netflix, diffusa in oltre 160 Paesi: «Dal giorno dopo ho cominciato a ricevere messaggi dall’India, dal Sudamerica», racconta Orlandi. Una solidarietà trasversale che ha fatto esplodere il caso e costretto il Vaticano a muoversi, aprendo un’inchiesta che lui definisce «una farsa totale».

La pressione mediatica globale, insieme alla nascita della commissione parlamentare, ha tolto alla vicenda il respiro nazionale per trasformarla in un affare geopolitico.

Il tradimento del padre

Nell’intervento non mancano le ombre personali. Il padre di Pietro, “un vero vaticanista”, prima di morire nel 2004 pronunciò una frase che pesa come un testamento: «Sono stato tradito da chi ho servito». Per Pietro è la prova che le responsabilità sono interne alla Santa Sede: «Sono convinto al cento per cento che sanno tutto quello che è successo».

La speranza nei giovani

Se il quadro politico-istituzionale appare bloccato, la speranza arriva dalle nuove generazioni: «Nei licei percepisco un senso di giustizia che non avevo mai sentito. I ragazzi stanno due ore ad ascoltare senza toccare il telefono, fanno domande che vanno oltre i documentari».

Il suo messaggio è netto: «La prima cosa che dico sempre è: non accettate mai passivamente un’ingiustizia. Piccole o grandi che siano».

Una questione di democrazia

Dal palco del Todi Festival, Pietro Orlandi non consegna al Paese solo il dolore di una famiglia, ma un atto d’accusa che riguarda la credibilità stessa delle istituzioni. Il Vaticano, dice, ha scelto per quarant’anni la strada del silenzio e dell’occultamento; lo Stato italiano si è mosso tardi, spesso con timidezza e subordinazione.

Il caso Orlandi non è dunque solo una ferita privata, ma un banco di prova per la tenuta democratica di due Stati. E a quarantadue anni dalla scomparsa di Emanuela, resta un termometro impietoso della salute politica e morale di un’intera nazione.

Native

Articoli correlati