"Antigone non muore": Clara Galante reinventa il mito greco a Todi
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"Antigone non muore": Clara Galante reinventa il mito greco a Todi

Una sovversione radicale della tragedia sofoclea che immagina l'eroina sopravvissuta alla caverna, invecchiata e trasformata dal tempo

Clara Galante - Antigone non muore - Todi Festival - Ph Matteo De Paoli - recensione di Alessia de Antoniis
Clara Galante - Antigone non muore - Todi Festival - Ph Matteo De Paoli
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

7 Settembre 2025 - 15.26


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di Alessia de Antoniis

Cosa accade quando si sottrae alla tragedia il suo epilogo naturale? Cosa resta di un eroe quando gli si nega la gloria della morte? Clara Galante, con Antigone non muore, opera una sovversione radicale del mito sofocleo, immaginando un’Antigone sopravvissuta alla caverna, invecchiata nel buio della prigionia, trasformata dal tempo in una creatura ibrida tra umano e vegetale.

Il testo di Elvira Buonocore, andato in scena al Todi Festival, fornisce l’ossatura drammaturgica del monologo, che Clara Galante assume e rielabora con un proprio intervento registico e scenico. La scrittura prende avvio dai versi 524-525 di Sofocle, quando Creonte intima ad Antigone di andare sottoterra ad amare i morti. Qui però Antigone non si uccide: sopravvive, resiste, si metamorfosa. I capelli che scendono fino alle caviglie, i piedi che scavano la terra come radici, il corpo che si incarna in corteccia: la metamorfosi scenica restituisce ad Antigone un’aura mitica e perturbante, segnata dal tempo e dalla natura che la avvolge.

Galante interpreta questa Antigone secolare con una presenza fisica impressionante. Avvolta in strati di tessuti che evocano cortecce e fogliame, si muove con lentezza rituale, ieratica, che traduce in corpo la lunga durata della reclusione. La voce attraversa registri diversi — dalla rabbia giovanile che ancora pulsa sotto la superficie della vecchiaia, alla saggezza amara di chi ha visto troppo, fino al delirio visionario di chi dialoga con i morti.

Il diario mentale che Antigone scrive nella sua prigionia diventa nucleo drammaturgico e dispositivo performativo. La ripetizione ossessiva di gesti e parole, insieme alle ipotesi immaginate di vite alternative — dal matrimonio mancato con Emone al rifiuto di seppellire Polinice — scandisce il tempo scenico e imprime alla narrazione una tensione crescente.  Questi ritorni, più che segnalare una deriva maniacale, assumono un carattere ipnotico e rituale, sospendendo la linearità del racconto e trascinando lo spettatore nell’isolamento mentale del personaggio.

La regia di Galante valorizza la dimensione rituale del testo e sfrutta magistralmente la suggestione del luogo. L’antico chiostro di San Fortunato a Todi, con i suoi archi in pietra e la sua aura di sacralità, diventa complice ideale della rappresentazione: le mura medievali accolgono e amplificano il dolore di Antigone, trasformando ogni parola in preghiera, ogni grido in lamento universale. Lo spazio scenico si fonde con l’architettura sacra in un paesaggio mentale dove passato e presente, sacro e profano, vita e morte si sovrappongono in una sinfonia visiva di rara potenza. La disposizione del pubblico ad anfiteatro restituisce alla rappresentazione quella dimensione corale che è propria della tragedia greca.

Antigone non muore si rivela un’operazione teatrale coraggiosa che, sottraendo il personaggio alla sua iconografia tradizionale, ne restituisce la complessità umana. Questa Antigone non è più il simbolo marmoreo della resistenza eroica, ma una donna che ha pagato il prezzo delle sue scelte, che ha conosciuto la follia e la metamorfosi, e che continua ostinatamente a esistere.

Il lavoro di Galante e Buonocore dimostra come il mito possa ancora parlare al presente, non attraverso la fedeltà filologica, ma attraverso la reinvenzione radicale. In un’epoca che interroga i propri modelli eroici, questa Antigone invecchiata e trasformata offre una riflessione profonda su cosa significhi davvero resistere: non morire da giovani e belli, ma continuare a vivere, a trasformarsi, a trovare nuove forme di esistenza anche nella prigionia più totale.

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