Fausto Bertinotti presenta "La sinistra che non c'è"
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Fausto Bertinotti presenta "La sinistra che non c'è"

Al Todi Festival il libro che analizza il collasso della sinistra europea. Un testamento più che un manifesto

Fausto Bertinotti - Silvano Spada - Todi Festival - La sinistra che non c'è - recensione di Alessia de Antoniis
Fausto Bertinotti - Silvano Spada - Todi Festival - presentazione del libro "La sinistra che non c'è"
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

12 Settembre 2025 - 10.49


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di Alessia de Antoniis

La sinistra che non c’è. L’autopsia di un mondo e il manifesto che manca

C’è qualcosa di tragicamente affascinante in questo La sinistra che non c’è. Bertinotti, l’ultimo mohicano del comunismo europeo, si presenta come un medico legale che non si limita a certificare il decesso del paziente, ma ne studia le cause con la minuzia di chi quella morte l’ha vista arrivare da lontano.

Un uomo, Fausto Bertinotti, che non ha smesso di credere che le parole possano ancora incendiare le coscienze. Che sa di aver perso, non si nasconde dietro i veli della diplomazia, e continua a guardare negli occhi la Storia per chiamarla col suo nome: sconfitta. Eppure, da questa sconfitta, egli tenta di far nascere un manifesto.

Il libro La sinistra che non c’è (Rai Libri, 2025), scritto con Roberto Genovesi, non è un memoir né un trattato accademico. È un atto d’accusa. Un testamento e insieme un appello. Bertinotti non ha bisogno di orpelli: sa che la sinistra, in Italia e in Occidente, “da più di venticinque anni o è irrilevante o è inesistente”. Non è retorica: sono i fatti, le urne, i tradimenti.

Il libro si snoda come un viaggio nel tempo che parte dalle radici del movimento socialista per arrivare ai nostri giorni, identificando con chiarezza i momenti di frattura. La prima ferita è il 1980, i 35 giorni alla Fiat. “Caporetto del movimento operaio”. Quando i capitalisti iniziano a fare la guerra ai lavoratori. E qui Bertinotti citando Warren Buffett, scrive: “No, non è vero che la lotta di classe non c’è più, la lotta di classe c’è, eccome. Solo che questa volta l’abbiamo vinta noi, la vinciamo noi”. La vincono i ricchi. La vince il capitale.  

Poi, il 1989: la caduta del Muro, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la fine del mito. Un grande esperimento politico fallito, che collassa su sé stesso, sotto il peso delle sue contraddizioni.

La diagnosi è spietata: la politica, da “Grande” che era, si è fatta servile. Servile al mercato, alla finanza, alle compatibilità. E il centrosinistra, invece di opporsi, si è adeguato. Ha accettato la lingua della destra: immigrazione come emergenza, sicurezza come ossessione; firmando così la propria condanna a morte. “È, insomma, come se questo centrosinistra temesse sempre, come principale preoccupazione, di essere considerato fuori dal sistema politico accettato”.

Il linguaggio di Bertinotti è quello di un militante che non ha mai smesso di credere. Ma affonda il colpo raccontando di come la sinistra europea abbia tradito la sua anima pacifista. Ha votato per le armi all’Ucraina, smarrendol’articolo 11 della Costituzione come bussola. Ha taciuto davanti al massacro di Gaza, dove “è mancato ogni senso critico rispetto alla vulgata corrente riguardo al Medioriente, secondo cui Israele è stato aggredito e dunque ha diritto a difendersi”. E aggiunge:“Non c’è più differenza tra guerra e terrorismo”, in una frase che suona come bestemmia e profezia insieme.

Non meno duro è il bilancio dei rapporti con i movimenti, come l’ambientalismo ridotto a “giardinaggio” – “l’ambientalismo ha smarrito qualcosa di essenziale: la critica al modello economico-sociale capitalistico”. – Eppure proprio in quei movimenti – Fridays for Future, MeToo, Non Una di Meno, le piazze per la Palestina – Bertinotti vede oggi l’unico primato possibile: quello dei corpi che resistono, fuori dai partiti.

E ancora parla di “tecno-feudalesimo”, un concetto mutuato da Varoufakis e Bannon: non più capitalismo liberale, ma potere assoluto concentrato nelle mani di pochi uomini-proprietari, da Musk a Trump. Una “gigantesca regressione della civiltà”.

 “L’opinione comune è che noi siamo nel tempo dell’apocalisse – ha detto al Todi Festival, presentando il libro –  ma il tempo dell’apocalisse non è il tempo della catastrofe, è quello che viene prima: il tempo del bivio, della scelta”.

“Oggi – ha sottolineato dal palco di Todi – il Parlamento è irrilevante, i governi contano meno delle piattaforme digitali, e se domani si chiudesse Montecitorio non se ne accorgerebbe nessuno”. E poi, citando Bernie Sanders, ha concluso: “I democratici hanno abbandonato i lavoratori e i lavoratori hanno abbandonato i democratici”.

C’è nostalgia nelle sue parole? Forse sì. La nostalgia di un’epoca romantica e guascona in cui la politica aveva radici popolari, in cui si marciava per i diritti e si vincevano battaglie. Ma non è nostalgia sterile: è la ferita che pulsa ancora, che reclama senso.

Bertinotti scrive come un comunista che non ha smesso di esserlo. Le sue frasi non sono mai neutre: sono fendenti, domande retoriche, richiami. “Chi comanda qui?” chiede a proposito dell’intelligenza artificiale, ricordando che già gli operai degli anni Settanta si ribellarono al taylorismo. La politica, se vuole sopravvivere, deve avere il coraggio di tirare il freno d’emergenza – il compito del rivoluzionario non è accelerare la corsa del treno, ma tirare il freno di emergenza.

La sinistra che non c’è non offre soluzioni pronte. Forse non poteva. Ma fa ciò che dovrebbe fare ogni libro politico: scuote, divide, costringe a scegliere. È un testamento, ma pretende di essere anche un inizio. E qui emerge il limite del libro: l’analisi è spietata, la diagnosi accurata, ma resta il problema di fondo: cosa faccio in pratica? Quali soggetti del panorama politico e non, italiano, potrebbero unirsi per una simile sfida? Bertinotti indica i movimenti come unica speranza, ma tra le piazze climatiche e una forza politica organizzata c’è un abisso che il manifesto non colma. Chi è in grado, e con quale progetto politico, di intercettare il 50% dei non votanti? Si vota a novembre del 2027 e il tempo stringe.

Fausto Bertinotti, a 85 anni, ha ancora il coraggio e la forza di chiamare la sinistra col suo nome. Ma chiamarla non basta più: bisogna anche sapere dove trovarla.

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